L’esercito italiano ha siglato il 10 settembre un accordo di cooperazione militare con l’esercito del Qatar. Formazione, addestramento e sviluppo delle capacità di combattimento: è quanto i soldati italiani garantiranno ai colleghi provenienti da Doha. Dovremmo esserne fieri e rallegrarcene? La domanda (retorica) trova una chiara risposta nella rassegna stampa internazionale delle ultime settimane, dove a circolare diffusamente è la notizia delle forniture militari che il Qatar avrebbe fatto recapitare in Libano a Hezbollah, recentemente designato come organizzazione terroristica anche dalla Germania.
Armi serbe, oro ugandese, grandi somme di denaro, svariati intermediari (balcanici e non), insieme ad “alti ufficiali” dell’emirato: sono questi gli attori dell’ultima brutta storia di cui Doha è protagonista, con il coinvolgimento persino dell’ambasciatore in Belgio e presso la NATO.
Una storia che giunge a ennesima conferma dell’opera d’inquinamento delle relazioni internazionali che il Qatar conduce in maniera pressoché irrefrenabile da oltre 20 anni. Neppure i Mondiali di calcio sono stati risparmiati, al punto che la Coppa che verrà assegnata nel 2022 resterà tristemente alla storia come il trofeo delle tangenti (vedi FIFA e UEFA) e delle violazioni dei diritti umani (vedi le condizioni di schiavitù della manodopera straniera).
Sul versante “sensibile” della politica estera e d'(in)sicurezza, giova sempre ricordare che Doha è il principale sponsor del fondamentalismo dei Fratelli Musulmani (anche in Europa), in tandem con la Turchia di Erdogan, di cui sostiene l’espansionismo neo-ottomano che sta mettendo in subbuglio le acque del Mediterraneo, dopo aver direttamente contribuito alla destabilizzazione di Siria e Libia. Mentre il “feeling” con l’Iran khomeinista, che trova fondamento nella contrapposizione al mondo arabo moderato e nella comune inclinazione verso il fondamentalismo religioso, è salito nuovamente alla ribalta appunto con le accuse di supporto militare ad Hezbollah, appendice libanese di Teheran.
Tutto ciò non sembra però provocare alcuna ritrosia da parte dell’Italia nell’approcciare gli emiri del clan Al Thani e i loro numerosi cortigiani, che dirigono ministeri, fondi d’investimento e le famose “charities”, utilizzate per finanziare il proselitismo dei Fratelli Musulmani anche in territorio italiano. Le relazioni con il Qatar vanno piuttosto a gonfie vele e di queste l’accordo militare è solo il tassello più recente, in attesa che si estrinsechino i contenuti dell’accordo di cooperazione in ambito culturale approvato recentemente dal Parlamento.
A fare da traino è naturalmente il business, in crescita costante “a beneficio del sistema Italia”, almeno così recitano gli slogan che pubblicizzano i fiorenti rapporti economici tra i due paesi, con la benedizione interessata di una certa politica.
Ma qual è il prezzo da pagare in cambio dei gas-dollari di Doha? Sul piano interno, consiste nel via libera al già menzionato proselitismo dei Fratelli Musulmani, nei cui confronti prosegue un colpevole “lasciar fare” che non va certo in direzione del contrasto alla diffusione dell’estremismo e della radicalizzazione (si riveda, a tal proposito, il libro inchiesta “Qatar Papers”, contenente informazioni e documentazione esaustive sul finanziamento in territorio italiano di luoghi di culto, pseudo-associazioni culturali, imam e militanti legati alla Fratellanza da parte della “Qatar Charity”).
Su quello esterno, regionale e internazionale, è la sostanziale conformazione delle politiche italiane all’agenda del Qatar e, nel complesso, della sua alleanza con la Turchia di Erdogan. Non inganni, ad esempio, la vendita all’Egitto di due fregate e la collaborazione dell’ENI con il Cairo nel settore petrolifero: un modo per ristabilire i rapporti su basi funzionali con un importante paese arabo, dopo le fibrillazioni diplomatiche relative al caso Regeni, ma nei dossier dove l’Egitto è in forte contrapposizione con l’asse islamista (Libia, Fratelli Musulmani), l’Italia ha scelto di accovacciarsi presso il trono dell’emiro di Doha e del neo-sultano di Istanbul nella speranza di vedere soddisfatti i propri interessi basilari sia economici che di sicurezza, accettando di farsi letteralmente da parte quando richiesto (si veda il caso dell’aeroporto di Misurata, che potrebbe presto ripetersi a Tripoli).
Un copione simile sembra andare in scena anche nel Mar Egeo, dove l’Italia non appare seriamente intenzionata a fare blocco con Francia, Grecia e Cipro contro il “bullismo” delle navi turche, sebbene in pericolo ci siano diritti già acquisiti, come quello di esplorazione delle acque territoriali cipriote concesso regolarmente all’ENI. Timore delle conseguenze e dubbi sulle proprie capacità, all’origine della scelta di non intraprendere una via meno accondiscendente al cospetto di Erdogan anche nel Mediterraneo?
Restando appesa all’asse islamista (Iran khomeinista incluso), l’Italia si sta allontanando sempre di più dalla maggioranza dei paesi arabi di Medio Oriente, Nord Africa e Golfo. Le relazioni economiche e militari proseguono e proseguiranno ma, contrariamente alla Francia, l’Italia non viene considerata un partner strategico e affidabile.
La regione è in fermento. Sono in atto significativi riallineamenti e la direzione intrapresa è quella della moderazione e della riconciliazione, come dimostra il Forum interreligioso che avrà luogo a Riad, Arabia Saudita, alla metà di ottobre nell’ambito del G20. L’Italia si ritrova però oggi dalla parte sbagliata e davvero in cattiva compagnia.
di Souad Sbai per FareFuturoFondazione.it