Il racket dei visti dietro la morte dell’ambasciatore Luca Attanasio – Il nuovo ambasciatore denuncia un tentativo di corruzione legato al rilascio dei documenti. Il rappresentante diplomatico ucciso aveva già avviato accertamenti e affrontato un funzionario.
Dalla Farnesina alla Procura di Roma, l’inchiesta sul presunto racket di visti nell’ambasciata italiana a Kinshasa che fanno da sfondo all’omicidio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio aprono nuovi scenari. Il ministero degli Affari Esteri italiano è pronto a inviare gli ispettori dopo aver richiesto alla sede diplomatica nella Repubblica democratica del Congo alcuni atti, oltre agli esposti di irregolarità presentati da cittadini congolesi, che non erano ancora stati acquisiti.
Nel frattempo è partita per l’Italia una segnalazione alla Procura di Roma dell’attuale ambasciatore in Congo, Alberto Petrangeli, estraneo agli illeciti che L’Espresso ha raccontato nel numero del 10 settembre attraverso la testimonianza di un imprenditore italo-congolese. Irregolarità avvenute prima che Petrangeli assumesse la titolarità della sede diplomatica.
Nell’esposto si fa riferimento ad alcuni messaggi arrivati sul cellulare dello stesso diplomatico con i quali, chi scriveva affermava di essere disposto a pagare qualsiasi cifra per ottenere un visto. Un chiaro tentativo di corruzione che l’ambasciatore italiano ha subito denunciato. Un ulteriore elemento che tratteggia il clima e il contesto in cui, in passato, sarebbero maturati gli atti di corruzione legati alla gestione del rilascio dei visti, riferiti da un testimone a L’Espresso e il cui racconto è stato acquisito già agli atti della procura romana.
Nei palazzi della politica l’inchiesta de L’Espresso ha spinto il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Di Giuseppe, membro della Commissione Esteri della Camera, a chiedere chiarimenti alla magistratura. «Nella Repubblica democratica del Congo siamo di fronte a illeciti gravi che ho riscontrato anche in altre ambasciate. È uno schema ripetitivo, con protagonisti diversi ma stesse dinamiche. I fatti che denuncia l’imprenditore di Kinshasa, riportati da L’Espresso, riferitimi da decine di funzionari, e persino ambasciatori, si sono verificati anche in altri Paesi. Nel caso di Kinshasa parliamo di un funzionario che nonostante la gravità delle denunce non è stato sospeso ma semplicemente spostato in altra sede. Con il mio esposto denuncia intendo avanzare una richiesta di informazioni alla magistratura per fare chiarezza affinché nulla resti nell’oscurità. Serve trasparenza».
Il deputato di FdI, eletto nella circoscrizione estera Nord e Centro America, ha scoperto e denunciato alla Guardia di Finanza un giro di “visti facili” mirato a favorire l’immigrazione illegale in Italia, attraverso un commercio internazionale di permessi di soggiorno di lavoro (o di turismo) per immigrati, favorito da «decine di dipendenti corrotti e infedeli» delle ambasciate e dei consolati italiani in Asia, Africa e in Sud America. L’onorevole Di Giuseppe, per aver messo in crisi un modello di business gestito da gruppi criminali organizzati è stato minacciato e ha ricevuto intimidazioni ed è stata disposta una misura di protezione nei suoi confronti.
«Quello che emerge dalla testimonianza dell’imprenditore Italo-congolese è un ulteriore pezzo dello schema che ho denunciato e che va approfondito perché, in questo caso, ci sono due servitori dello Stato, l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, per i quali va colmato un buco di ambiguità ed è doveroso ristabilire un certo tipo di memoria, di ragione e di verità», conclude Di Giuseppe. Le denunce in possesso de L’Espresso, oltre a certificare fatti e illeciti, riportano nomi e cognomi dei presunti promotori del racket.
In ogni ambasciata la competenza al rilascio dei visti emessi dalla Repubblica Italiana spetta al ministero degli Affari Esteri. Un compito affidato alla rete di uffici diplomatico-consolari all’estero, responsabili dell’accertamento del possesso e della valutazione dei requisiti necessari per l’ottenimento del visto. La domanda per acquisire il permesso d’ingresso in Italia deve essere presentata alla rappresentanza consolare del Paese di origine. Nel caso della RdC il destinatario era proprio l’ufficio dello stesso funzionario scoperto a portare fuori dall’ambasciata una borsa piena di passaporti. La circostanza è nella relazione di sevizio dei carabinieri della sede diplomatica italiana che lo avevano scoperto.
Secondo le testimonianze raccolte, in Congo il racket dei visti andava avanti da anni e lo scandalo su cui insiste Di Giuseppe sta assumendo dimensioni vaste. A Kinshasa, come negli altri Paesi le cui sedi diplomatiche sono finite sotto la lente della Farnesina. Il ministero ha già inviato ispettori in Pakistan, Sri Lanka e Bangladesh con una «missione d’urgenza». Il comune denominatore sembra essere questo: chi si vedeva respinta la richiesta d’ingresso nell’area Schengen poteva recarsi all’ambasciata italiana per ottenere quanto richiesto, naturalmente dietro compenso. A detta dei locali in Congo, il nostro Consolato era considerato «più malleabile e vulnerabile alle mazzette». Vari testimoni sostengono che i «comportamenti gravi» di alcuni funzionari italiani erano ben noti a tutti sia nella capitale congolese che a Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu.
Le voci erano arrivate anche all’ambasciatore Attanasio che si era messo a verificare di persona l’attendibilità delle segnalazioni in grado di rovinare la reputazione dell’ambasciata italiana in Congo sotto la sua responsabilità. Proprio per questo, qualche giorno prima della missione nel Kivu, dove il 22 febbraio del 2021 fu vittima dell’agguato in cui morì insieme con il carabiniere che gli faceva da scorta, il diplomatico, secondo un testimone a lui molto vicino, aveva discusso con uno dei funzionari chiacchierati e che era stato già avvisato in passato. In quella occasione lo avrebbe ammonito di «non giocare con i visti». Richiesta disattesa, come emergerebbe da quanto scoperto successivamente. Ufficialmente, Attanasio e il carabiniere Iacovacci sono stati vittime di una imboscata da parte di predoni locali che avevano l’obiettivo di rapinarli. Una versione che non ha mai convinto i loro familiari.