Nagorno Karabak: Armenia e Azerbajan trattano un’intesa, ma le pretese del bellicoso Presidente azero Ilham Aliyev e la contestuale debolezza dell’esecutivo armeno del Presidente Nikol Pashinyan rischiano di mettere Yerevan con le spalle al muro
Di Alberto Rosselli
Situazione di stallo, ma negativa per l’Armenia, in Nagorno Karabak o Artsakh in lingua armena. Come è noto, alcuni mesi fa le truppe azere musulmane hanno occupato militarmente la regione, abitata in prevalenza da armeni cristiani, e non contenti, ora chiedono il riconoscimento legale di un atto ovviamente illegale. Al riguardo sia l’Onu che la Ue hanno palesato assai tiepido interesse per la questione, ritenuta secondaria rispetto al conflitto russo-ucraino e alla guerra a Gaza e in Libano, anche se la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, il presidente Joe Biden, l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan e, da una posizione a parte, il Presidente Vladimir Putin, si sono tutti dichiarati favorevoli ad un rapido accordo di pace tra Armenia e Azerbajan, Paese quest’ultimo di fondamentale importanza per l’Occidente per via delle sue immense risorse energetiche (impianti petroliferi di Baku). L’accordo imbastito lo scorso 19 aprile tra Yerevan e Baku per la definizione di una parte del confine tra la regione armena di
Tavush e quella azera di Gazakh ha dunque strappato il plauso della comunità internazionale preoccupata principalmente per l’eventuale messa a rischio degli oleodotti che lambiscono o attraversano le aree contese da Armenia e Azerbajan. L’accordo, tuttavia, ha suscitato il disappunto da parte di una buona fetta dell’opinione pubblica armena, e soprattutto da parte dei partiti di opposizione e del clero ortodosso.
L’intesa, che riguarderebbe, almeno sulla carta (le zone controverse sono in realtà più estese) un breve tratto di confine tra i due Paesi, sarebbe un risultato del tutto vantaggioso per il governo di Baku in quanto l’area in questione, già occupata manu militari dagli azeri, riveste una grande importanza strategica e militare, anche in vista di un’eventuale espansione verso ovest, e cioè verso l’Armenia vera e propria: progetto, quest’ultimo, più volte sbandierato dal bellicoso leader azero Ilham Aliyev. L’intesa, di fatto, consente di fatto all’Azerbajan il controllo della statale che porta in Georgia (uno dei tre principali
accessi in direzione di Tibilisi) e di due strategiche infrastrutture energetiche: il gasdotto South Caucasus Pipiline – SCP e l’oleodotto Baku-Supsa. Di fronte a tale situazione, il governo armeno sembra essersi piegato su se stesso, accettando lo stato di fatto pur di evitare un ennesimo devastante conflitto (tra il 1992 e il 2020, Armenia e Azerbajan hanno combattute tre sanguinose e costosissime guerre dagli esiti altalenanti). Nella fattispecie, il premier armeno Nikol Pashinyan ha di fatto accettato le richieste dell’autoritario presidente dell’Azerbaigian, Aliyev, scatenando, come si è detto, il malcontento generale e le proteste della popolazione armena del Nagorno Karabak, costretta dalle forze armate azere all’esodo verso la madrepatria. Le comunità locali, sentendosi ‘tradite’ dall’esecutivo di Yerevan hanno dunque aderito, con l’appoggio della Chiesa Apostolica armena, al movimento patriottico “Tavush per la madrepatria” alla cuiguida si è posto il cinquantatreenne arcivescovo Bagrat Galstanyan che il 9 maggio
scorso aveva già promosso una marcia di protesta fino alla capitale Yerevan, culminata con una adunata in piazza della Repubblica alla quale avevano partecipato oltre trentamila persone ed esponenti dei partiti di opposizione e dell’ex presidente Robert Kocharyan (leader del Partito Miatsum, da sempre favorevole alla riunificazione tra Armenia e Nagorno Karabak). Pashinyan, a capo del Partito Contratto civile, ha di fatto
giustificato la volontà di cessione all’Azerbajan dei territori sulla base di una mappatura del confine risalente al 1976, e successivamente confermata nel 1979 dall’istituto
cartografico dell’URSS, e in linea con la dichiarazione congiunta di Alma Ata (oggi Almaty) del 21 dicembre 1991, voluta dalla Russia. Sta di fatto che, in base a questa vecchia mappatura, l’Azerbajan potrebbe (l’accordo è ancora da ultimare) potrebbe inglobare definitivamente quattro insediamenti del Nagorno Karabak a maggioranza armena: Voskepar, Baganis, Berbaker e Kirants, conquistati dagli armeni durante la
guerra degli anni Novanta, suscitando ulteriori malcontenti da parte della popolazione.
Dopo la sconfitta armena nella guerra del 2020, la Chiesa Apostolica armena ha assunto una posizione sempre più critica nei confronti del governo Pashinyan, accusato di volere regalare l’antico Artsakh cristiano al dittatore Aliyev. Ricordiamo che l’istituzione apostolica armena, dal 1991 garante della stabilità istituzionale della Repubblica armena indipendente, in questi ultimi tempi è andata assumendo posizioni sempre più ‘patriottiche’ e Karekin II, venerato Catholicos della Chiesa apostolica armena, si è progressivamente avvicinato alle posizioni di un altro importante religioso, Aram I, Catholicos di Cilicia, molto vicino alla diaspora armena. Ma ritorniamo alle intricate questioni armene interne. Come spiega Emanuele Aliprandi, storico ed esperto di geopolitica caucasica “la prima manifestazione a Yerevan ha raccolto molte persone e ha indotto Galstanyan ad avviare una serie di colloqui con politici di opposizione per dare vita a un movimento unitario contro Pashinyan. Tuttavia, il suo tentativo di creare una forte coalizione non ha sortito i
risultati sperati anche a causa di una serie di veti incrociati delle varie fazioni politiche armene. Al punto che l’arcivescovo è stato indicato come soggetto super partes per guidare un governo di transizione. Si è parlato di impeachment per Pashinyan (ma di impossibile attuazione stante la maggioranza in parlamento) e della impossibilità per Galstanyan (che ha anche la cittadinanza canadese) di ricoprire il ruolo di Primo ministro. La seconda manifestazione, il 26 maggio – prosegue Aliprandi – ha visto un’affluenza di ventimila persone, dunque in calo rispetto alla precedente, sicché il movimento si è impegnato in una serie di azioni di “disobbedienza civile” quali ad esempio il blocco delle strade della capitale, che è finito in tafferugli”. Da parte sua, Pashinyan ha ribadito che la sua politica fa perno su un concetto pragmatico – ma inaccettabile – per gli armeni del Karabak, cioè l’accettazione di un compromesso al ribasso con Aliyev al fine di porre termine alla lunga e sanguinosa contesa. Il leader di Yerevan prospetta un’Armenia ‘reale’
da contrapporre ad una Armenia ‘terra promessa’, cioè storica, che non può a parer suo essere attuata. Il premier armeno ha dichiarato che per garantire la sovranità sui 29.743 chilometri quadrati della repubblica è necessario stabilire un principio condiviso con la controparte azera, cioè una sorta autolimitazione territoriale seppure a costo di dolorose rinunce quale unico strumento utile per garantire la futura sicurezza dell’Armenia stessa che, ricordiamo, dispone di un apparato militare molto debole – nonostante gli aiuti forniti da Israele, Francia e India – rispetto a quello azero. Il proponimento ‘pacifista’ di Pashinyan appare dunque eticamente lodevole, ma del tutto pericoloso in quanto Ilham Aliyev (massicciamente sostenuto, sotto il profilo militare, dalla Turchia, dall’Iran, dal Pakistan e dalla Russia, un tempo paladina dell’Armenia), in un recente passato ha più volte dichiarato l’intenzione a riappropriarsi di altre porzioni dell’Armenia considerate da questi “storicamente azere” (cosa del tutto falsa). Detto ciò, Yerevan e Baku continuano a dichiararsi entrambe favorevoli alla firma di un accordo in tempi brevi, anche se sul contenuto del testo c’è ancora molto da discutere. A questo proposito, Armenia e
Azerbajan si sono già scambiate numerose e versioni del documento finale composto da sedici articoli, tre dei quali però sono già stati cassati da Baku. L’Azerbaigian ha infatti richiesto che l’Armenia cambi addirittura la propria costituzione in quanto la stessa, nel preambolo, fa riferimento alla dichiarazione di indipendenza del 1991 che contiene un passaggio relativo alla riunificazione con l’Artsakh (Nagorno Karabakh): richiesta improponibile in quanto, dato e non concesso che essa venisse accettata da Yerevan, sarebbe comunque necessaria la sua approvazione soltanto attraverso un referendum
popolare, cosa del tutto impensabile. Ma non è tutto. Non contento, Aliyev ha inoltre avanzato la richiesta di smilitarizzazione del Paese confinante e lo scioglimento del cosiddetto Gruppo di Minsk dell’Osce che per quasi trent’anni ha condotto le trattative sul Nagorno Karabakh.