Del problema della radicalizzazione dell’Islam nelle carceri italiane si è cominciato a parlare solo da pochi anni, sull’onda degli attentati al Bataclan nel 2015, ma le origini di questo fenomeno si collocano nei primi anni Duemila, con il rafforzarsi del proselitismo di Al Qaeda. Durante la primavera araba in Siria, il processo si è affinato e rafforzato, ed ha condotto al reclutamento di migliaia di foreign fighters europei, partiti a combattere per il califfato islamico.
Sarebbe un errore ricollegare il termine radicalizzazione esclusivamente al fondamentalismo islamico, perché questa dinamica è comune a numerose ideologie. Tuttavia è indubbio che la radicalizzazione ha rappresentato e rappresenta uno dei pilastri operativi del proselitismo islamico fondamentalista
In linea generale, gli esperti hanno notato che le modalità di reclutamento di nuovi adepti sono mutate negli ultimi vent’anni: si è passati da un modello “estroverso” ad un modello “introverso” di radicalizzazione. All’inizio degli anni Duemila, il modello di appartenenza era basato sull’ostentazione dei simboli religiosi e culturali: chi faceva parte del network mirava a distinguersi anche fisicamente dagli “infedeli”, facendosi crescere una folta barba o indossando abiti tradizionali. Inoltre l’atteggiamento nei confronti delle guardie carcerarie e degli altri detenuti ritenuti “infedeli” era tendenzialmente aggressivo, o comunque ostile, basato sulla rivendicazione dell’appartenenza religiosa come strumento di dissociazione da una società ritenuta empia. In terzo luogo, si tendeva a reclutare gruppi piuttosto ampi, composti anche da 10 o 12 persone, e tra i requisiti rientrava anche la stabilità mentale del soggetto e la forza della sua convinzione ideologica. In tal modo, diventava più semplice per le autorità individuare le potenziali cellule terroristiche, perché l’obiettivo principale di questi individui era la rivendicazione, e se possibile anche la spettacolarizzazione delle loro convinzioni religiose.
Negli ultimi anni invece, si è via via diffuso un altro modello di radicalizzazione, detto “introverso”, perché si preoccupa di passare inosservato agli outsiders e alle autorità, che ovviamente incontrano difficoltà molto maggiori nel contrastare questo fenomeno così sfuggente. Gli individui radicalizzati spesso non hanno un aspetto diverso da quello di tutti gli altri detenuti, e sovente non partecipano nemmeno alle funzioni religiose comuni, allestite dalla struttura penitenziaria. Inoltre, una caratteristica particolare è che le cellule sono ormai composte da due, o al massimo tre individui (sovente compagni di cella): uno di loro è la personalità carismatica del gruppo, colui che persuade gli altri ad unirsi alla causa, mentre l’altro è spesso psicologicamente vulnerabile per svariate ragioni. Il risultato è che a volte le autorità finiscono col sospettare di radicalizzazione detenuti che non fanno altro che professare apertamente la propria religione, senza monitorare invece coloro che davvero sono entrati a far parte di un network estremista islamico.
A livello quantitativo, il fenomeno della radicalizzazione è meno consistente in Italia rispetto ad altri paesi europei come Gran Bretagna o Francia, ma sta diventano una dinamica sociologica preoccupante anche da noi, ed è difficile individuarne sia i confini che le cause. Gli esperti ne individuano principalmente quattro.
Innanzitutto, la frustrazione è una delle principali variabili che influenzano la radicalizzazione dei detenuti negli istituti correzionali. Frustrazione dovuta in primis alla scarsità di opportunità lavorative ed alla bassa retribuzione per il lavoro svolto in carcere, che non consente di provvedere adeguatamente alla propria famiglia. Per i musulmani si aggiunge un fattore ulteriore, perché le nostre strutture carcerarie spesso non forniscono loro sufficiente assistenza spirituale. In primo luogo, perché sovente mancano gli spazi adeguati per la celebrazione dei rituali religiosi. Inoltre, c’è una cronica scarsità di ministri del culto islamico, il che fa sì che spesso si facciano avanti imam cosiddetti fai-da-te, non formati adeguatamente, ma capaci con la loro forte personalità di suggestionare i fedeli trasmettendo messaggi di odio che non hanno nulla a che vedere con gli insegnamenti del Profeta.
La seconda determinante della radicalizzazione nasce dai noti problemi organizzativi del sistema carcerario italiano: personale sottodimensionato e popolazione carceraria in sovrannumero. Infatti, a fine marzo 2021 si contano 53.509 detenuti nei penitenziari italiani, contro una capienza di 50.779. L’asimmetria tra il numero dei detenuti e la mancanza di personale riduce grandemente le possibilità di comunicazione, elemento fondamentale nel processo di riabilitazione. Per di più molti reclusi spesso hanno una conoscenza rudimentale dell’italiano, mentre la maggioranza del personale penitenziario non ha elementi nemmeno basilari di arabo: in questi casi, la comunicazione è impossibile, e ciò non fa che fomentare l’ostilità. Queste condizioni sono terreno fertile per il rafforzamento del processo di radicalizzazione.
La concreta esposizione al pensiero fondamentalista in carcere rappresenta la terza concausa della radicalizzazione. Spesso i detenuti condannati per reati connessi al terrorismo vengono reclusi nella stessa cella, e l’effetto collaterale è che le loro convinzioni si fomentano vicendevolmente. Anche i condannati per reati comuni non sono immuni a questa dinamica, specie se psicologicamente vulnerabili, per le ragioni viste prima.
L’effetto boomerang di certe misure di prevenzione adottate dalle autorità è il quarto driver della radicalizzazione. La repressione di tutto quello che le autorità considerano espressione di fondamentalismo islamico, quando spesso si tratta semplicemente dell’esternazione della propria religione, genera sentimenti diffusi di insofferenza ed ostilità. Inoltre fa sì che chi vuole davvero radicalizzarsi, lo faccia in maniera silenziosa, discreta e, purtroppo, efficace.
A questo punto viene da chiedersi da che parte si debba cominciare a riformare un’organizzazione carceraria che, di fatto, finisce per favorire la radicalizzazione. La risposta non è rivoluzionare il sistema, perché il nostro impianto normativo prevede già i mezzi necessari a incoraggiare l’integrazione. Occorre quindi rafforzare gli strumenti esistenti. Prima di tutto, bisogna rimediare al fenomeno della sovrappopolazione carceraria ampliando le infrastrutture penitenziarie ed aumentandone il numero. Occorre poi rafforzare la formazione del personale penitenziario, in modo che abbia gli strumenti operativi per meglio relazionarsi con i detenuti ed aumentare le possibilità di dialogo. Inoltre, è importante finanziare adeguatamente i programmi di reinserimento dei detenuti nella società, senza trascurare la dimensione dell’assistenza spirituale.
Di Gianna Gancia