Non occorreva, se andiamo a rileggere la storia di questi anni, un pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per sancire che il burqa è uno strumento di oppressione e di isolamento sociale per le donne.
Ma il valore intrinseco di ciò che Strasburgo ha statuito, respingendo il ricorso di una cittadina francese solerte indossatrice di burqa, travalica il senso stretto della sentenza e apre la strada ad un cambiamento radicale nel pensiero europeo e internazionale su questo indumento: passiamo dall’Europa del multiculturalismo a tutti i costi, assumendo comunque che il burqa tutto è tranne che islamico, all’Europa dell’affermazione dei diritti. Quelli veri, quelli delle donne e degli uomini che sanno distinguere una tradizione da un’imposizione, che sanno e vogliono tutelare la dignità dell’essere umano dall’afganizzazione dei costumi e dalla deriva pseudo-culturale che le lobby estremiste vorrebbero imporre.
Tutto pare cambiare verso, in questo momento. I rigurgiti integralisti derivanti dalla primavera araba cadono uno dietro l’altro, l’estremismo si rivela in Iraq per quello che è, smettendo la maschera di “islamisti moderati” e rimettendo quella vera di terroristi, e alcuni personaggi anche qui in Europa tornano da dove erano venuti, ossia ai margini della società e della politica. Il tentativo di bucare il ventre molle d’Europa per ora è fallito, ma certo non esaurito.
La sentenza della Corte dei Diritti Umani, e non di un piccolo tribunale di provincia, dice in sé molte cose che andrebbero analizzate a fondo, ma è utile soffermarsi su una in particolare: “Le autorità francesi perseguirono (con la legge anti-burqa, ndr) l’obiettivo legittimo di garantire le condizioni della vita associata”. Da cui si deduce, con estrema semplicità, che il burqa è un elemento che stride in maniera inaccettabile con la vita sociale e con ogni forma di aggregazione umana. Un indumento che, per sua natura, preclude la vita della donna ad ogni altra esperienza umana, di contatto visivo e personale: una gabbia sociale prima che umana, un’imposizione che non è mai tradizione, altrimenti sarebbe stata ben tollerata dai giudici.
Ora appare chiaro che tutti i tribunali e gli avvocati europei, compresi quelli italiani, dovrebbero far giurisprudenza di questa sentenza storica e effettuare una virata decisa su tutte le questioni riguardanti burqa e niqab. E la politica? Che fa? Per ora pare non essersi nemmeno accorta di questa sentenza, che va a toccare un progetto di legge giacente nei cassetti dell’aula di Montecitorio e arenatasi alla discussione. Quando la presentai in Commissione Affari Costituzionali e alla Camera, io e tutta l’élite moderata di giornalisti, intellettuali ed esponenti della società civile venimmo aggrediti da un fuoco di fila di minacce, insulti, ingiurie e calunnie che non basta il web per raccontarli. Una sequela di atti e fatti inqualificabili da parte di chi aveva tutto l’interesse alla liceità del burqa in Italia. Per motivi personali, o perché aveva le tasche talmente piene che non ce la faceva nemmeno a camminare. La politica italiana ha il dovere morale e storico di riprendere in mano quel progetto e convertirlo rapidamente in legge dello Stato italiano, sancendo una volta per tutte la sua distanza dall’estremismo. Lo Stato deve affermare con nettezza che non è e non sarà mai contiguo con l’integralismo, di qualsiasi matrice esso sia.
L’Europa, che fino ad oggi era stata nella migliore delle ipotesi silenziosa, il suo passo nella storia lo ha fatto e ora tocca alle singole legislazioni nazionali dire la propria su questo. La politica deve uscire allo scoperto e dire se vuole libere donne in libero Stato o donne schiave in uno Stato afganizzato. La sentenza della Corte di Strasburgo è il punto di non ritorno: vietare il burqa non lede alcun diritto, tollerarlo implicitamente significa essere complici della morte di ogni donna che scompare, soffocata nel corpo e nell’anima da un mucchio di stoffa avvelenata dall’estremismo.
Di Souad Sbai per L’Opinione delle Libertà