Giornata Internazionale della Pace: come la vivono le donne afghane?

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(Fonte: “Il Riformista”)

Oggi, 21 settembre, è la Giornata Internazionale della Pace. Di recente in Afghanistan si è conclusa ufficialmente una guerra ventennale con il ritiro americano e non solo, ma non si può parlare certo di pace con i Talebani al potere. Ce lo dimostra la necessità della Resistenza del Panjshir guidata da Ahmad Massoud jr. Ce lo dimostra la situazione già regredita delle donne, che hanno iniziato a perdere le libertà fondamentali che avevano conquistato: quella di uscire di casa, di studiare e di lavorare.
Sintetizza la realtà di queste settimane un articolo di due settimane fa intitolato “Afghanistan, strade deserte e donne a casa: la pace malata imposta a Kabul” di Lorenzo Cremonesi, inviato nella capitale afghana.
Raccoglie per esempio la testimonianza di Shaima, 44 anni, assistente sociale originaria della città settentrionale di Kunduz, che tra l’altro era stata l’ultima città controllata dai Talebani prima di essere conquistata quasi vent’anni fa dal Fronte Islamico Unito per la Salvezza dell’Afghanistan con a capo Ahmad Massoud sr.
“Non bisogna credere a nulla di ciò che dicono” i Talebani, avverte Shaima (e sappiamo che fortunatamente non è la sola persona di nazionalità afghana a pensarla così). Lei lavorava per la “Women for Afghan Women” (Waw)”, un’organizzazione finanziata dagli USA per aprire case – rifugio per le donne maltrattate dai mariti e familiari. Naturalmente chi lavora per un’organizzazione di questo tipo, viene tacciato di “collaborazionismo” dal regime e rischia la vita, infatti Shaima e le compagne, che si occupavano di 15 donne e 25 bambini, sono dovute fuggire. Gli “studenti coranici” sono anche andati a casa sua per arrestare lei. Era già accaduto nel 2016, dopo la riconquista di Kunduz.
Shaima e le altre della “Waw”, però, erano già a Mazar – i Sharif, poi si sono trasferite a Kabul. Oggi tutti i centri per la salvaguardia delle donne sono stati chiusi.
La ong di cui stiamo parlando, ne aveva ben 14 e si occupavano addirittura di un migliaio di persone tra donne e bambini. Ora Shaima e la sua famiglia devono vivere nascosti, se non facevano parte di quella massa di disperati che sono riusciti a lasciare il Paese.
Si vedono poche donne in giro, naturalmente velate anche in maniera integrale con burqa e niqab. Nelle scuole le insegnanti sono spesso già state letteralmente mandate a casa e, ben che vada, nelle università studentesse e studenti fanno lezioni separati.
E’ di ieri la notizia che il sindaco di Kabul, Molavi Hamdullah Nomani, ha chiesto alle dipendenti di non lavorare più, a meno che non sia strettamente necessario. Ovviamente non è migliore la situazione per le giornaliste.
Questo è il nuovo – vecchio Afghanistan. Tuttavia non è solo colpa dei Talebani: spieghiamo meglio. Oltre alla questione del disastroso ritiro americano, c’è anche chi sottolinea che la libertà delle donne afghane e non solo, non andasse cercata con le bombe (insomma, come spesso si ricorda, “La democrazia non si può imporre e tantomeno con la guerra”). Intervistato da “Famiglia Cristiana”, don Renato Sacco, Coordinatore dell’Associazione “Pax Christi Italia”, profondo conoscitore della situazione afghana, che vide di persona nel 2011 con una delegazione di “Tavola per la Pace” (fondata nel 1996 ad Assisi dagli organizzatori della Marcia per la Pace Perugia/Assisi), racconta che con una piccola parrocchia del Novarese ed associazioni locali, hanno aiutato per anni (possono farlo ancora?) una cooperativa di donne afghane dedite alla coltivazione di zafferano (“tra i migliori al mondo”, sottolinea il sacerdote). “Ebbene nel 2011, quando andai in Afghanistan – dice don Sacco – potei costatare che queste donne non venivano per nulla supportate in questa attività che significavano riscatto, autonomia. Siamo solo riusciti a far aumentare la produzione di oppio in questi anni. Perché non abbiamo aiutato queste donne quando eravamo presenti? E adesso che ne sarà di loro? Abbiamo consentito ai talebani che ciò accadesse. In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo Paese, e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo ‘bombardato’ non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro Paese (ma ribadiamo che per fortuna per moltissimi afghani non è così, basti pensare a quelli che sono fuggiti e alle donne che hanno manifestato per le strade a loro rischio e pericolo, ndr). Adesso non so davvero cosa si potrà fare. Li abbiamo abbandonati al loro destino e ai loro sogni”.

Alessandra Boga

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