“In Italia non c’è giustificazione culturale per i maltrattamenti su una donna” – Il tribunale di Brescia ha motivato così l’assoluzione nei confronti di un uomo del Bangladesh che in un primo momento il pm aveva ‘giustificato’ per la provenienza sua e della moglie.
Nell'”ordinamento giuridico di uno Stato costituzionale di diritto non trova cittadinanza alcuna forma di scriminante di carattere culturale” che possa giustificare la violenza su una persona. Il concetto viene espresso con molta chiarezza nelle motivazioni lette dall’AGI alla sentenza con la quale il Tribunale di Brescia ha assolto nell’ottobre scorso un uomo di 40 anni originario del Banglasdesh dall’accusa di maltrattamenti e violenza sessuale nei confronti dell’ex moglie di 28 anni sua connazionale. La vicenda aveva suscitato molte polemiche perché in un primo momento il pubblico ministero Antonio Basssolino aveva chiesto l’assoluzione con la formula ‘il fatto non costituisce reato’ facendo riferimento in una memoria a comportamenti da parte dell’imputato “frutto dell’impianto culturale di origine”. Parole definite “inaccettabili” anche dal ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Poi il magistrato aveva cambiato idea chiedendo l’assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’ ed eliminando quel riferimento alla cultura d’origine durante la requisitoria in aula. E proprio con quest’ultima formula i giudici hanno assolto l’imputato ritenendo che “le dichiarazioni della donna non sono risultate così solide da fondare la responsabilità penale dell’imputato”.
In un passaggio delle 25 pagine di argomenti posti a sostegno del verdetto, i giudici scrivono che “è superfluo rammentare che non possa trovare cittadinanza nell’ordinamento giuridico di uno Stato costituzionale di diritto alcuna forma di discriminante culturale che, escludendo l’antigiuridicità del fatto o anche solo attenuandone il trattamento sanzionatorio, autorizzi la perpetrazione di comportamenti aggressivi dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione oltre che dalla normativa sovranazionale ed europea, trattandosi di principio acquisito di queste aule di giustizia”.
Nelle sua memoria, il pm aveva osservato che “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della persona offesa da parte dell’imputato sono frutto dell’impianto culturale di origine e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge” chiedendo l’assoluzione dell’imputato perché ‘il fatto non costituisce reato’, “per difetto dell’elemento soggettivo tipico” oltre a sottolineare che comunque il reato di maltrattamenti non ci fosse. Nella requisitoria in aula lo scorso 17 ottobre aveva chiesto l’innocenza dell’uomo con la formula ‘perché il fatto non sussiste’ tornando sui proprio passi. E su questo il collegio presieduto dalla giudice Maria Chiara Minazzato gli da’ pienamente ragione sostenendo che le accuse della donna siano “generiche e contraddittorie quando incalzate dall’imprescindibile precisione della narrazione accusatoria”.
L’imputato rispondeva di maltrattamenti e violenza sessuale tra il 2015 e il 2019. “Tale narrazione – scrivono i giudici parlando solo dei maltrattamenti – autonomamente già inidonea a parere del collegio a sostenere l’accusa di maltrattamenti poiché, indiscussa l’offensività delle condotte illecite, ne manca la necessaria abitualità per integrare questo reato, è inoltre viziata da profili di contraddittorietà e mendacità nelle versioni rese dalla donna e dal suo attuale compagno, peraltro smentite anche dalle persone informate sui fatti”. I legali della parte offesa presenteranno ricorso in appello contro l’assoluzione.