Gli influencer della Jihad, la leader era appena rientrata a Bologna dal Pakistan – La 22enne bolognese di origini pakistane arrestata nel blitz dei carabinieri del Ros coordinati dalla Dda, aveva le idee chiare sulla propria attività di proselitismo sul web e su come eludere le forze dell’ordine. Il gruppo pronto alla lotta armata.
La presunta leader dell’associazione con finalità di terrorismo e istigazione a delinquere smantellata ieri dal blitz dei carabinieri del Ros coordinati dalla Dda, una bolognese di origini pakistane di 22 anni, aveva le idee chiare sulla propria attività di proselitismo per la causa jihadista via web, così come sull’illegalità della cosa. Perciò pubblicava consigli online su come eludere i controlli delle forze dell’ordine. Lo sostiene il giudice per le indagini preliminari che ha disposto il carcere per lei, per il fratello minore appena 19enne, per l’altra “mente” del gruppo, una 18enne umbra di origini algerine, e per gli altri due uomini del contestato sodalizio, un turco di 27 anni residente in provincia di Udine e un marocchino ventenne residente a Milano, che ora pare si trovi in Etiopia, dove probabilmente si è unito a milizie jihadiste.
La 22enne – che è difesa dall’avvocato Simone Romano e venerdì sosterrà l’interrogatorio di garanzia – metteva in guardia i followers dagli “account fake” dietro i quali potevano nascondersi forze dell’ordine, in parte sospettando, si ricostruisce, di essere oggetto di attenzioni investigative. E allora, spiegava insieme con l’amica algerina con cui gestiva varie pagine su Tik Tok, non vale la pena salvare contenuti compromettenti su cellulari e computer personali, poiché anche se è vero da un lato che la “Da’wah”, traducibile con chiamata alla religione o proselitismo, va fatta “senza temere i miscredenti”, dall’altro questi ultimi, sostengono le due ragazze, trovano sempre un pretesto per arrestare i musulmani, contestando ideologie estremiste e arrivando persino a cambiare le leggi pur di catturarli. E allora bisogna stare in guardia.
Scopo delle giovani indagate era poi educare a utilizzare i social – non solo Tik Tok, ma anche Telegram, WhatsApp business, Facebook e Instagram, X – per gli scopi “corretti”: non certo chattare con i ragazzi, bensì raccogliere fondi per le famiglie dei prigionieri religiosi e sostenere la causa jihadista. Per esempio condividendo video di biasimo o aperto odio verso i miscredenti occidentali e pure dei musulmani non integralisti, esaltando le gesta dei fedeli detenuti per atti di terrorismo, oppure ancora pubblicando immagini di atti di violenza fino all’invocazione del martirio, poiché la lotta armata contro i miscredenti è l’unico viatico, sostengono le ragazzine, per la gloria eterna.
Proprio su quest’ultimo punto, gli inquirenti si sono a lungo concentrati. E i contatti già presi da quasi tutti i membri del presunto sodalizio per recarsi all’estero, in Paesi in cui avviene l’addestramento delle milizie armate jihadiste, rende ineludibile, secondo il gip Romito, il rischio di fuga dall’Italia da parte loro. La “leader” 22enne, per esempio, era stata a lungo nel suo paese d’origine, il Pakistan, proprio nel corso delle indagini dei carabinieri (iniziate nel settembre 2023): era poi tornata improvvisamente in Italia, anticipando il proprio rientro, il 13 dicembre scorso, appena 10 giorni prima della cattura. L’ipotesi è che il viaggio fosse volto a stringere legami con esponenti locali della lotta armata. Al contempo l’amica 18enne, dall’Italia, aveva cercato online dei voli diretti verso Paesi del Centro Africa in cui sono presenti campi di addestramento appartenenti a organizzazioni terroristiche.
Non solo. Uno degli indagati, l’unico a non essere stato arrestato ieri, il ventenne marocchino cresciuto a Milano, con tutta probabilità si trova ora in Etiopia, stando non solo a quanto emerso dalle investigazioni, ma anche a quanto “promesso” da lui stesso ai propri followers, cui in più occasioni ha raccontato il proprio intento di entrare in contatto con addestratori in Africa. Il giovane risulta partito lo scorso novembre, all’insaputa della madre.
Per quanto riguarda il 27enne turco (che in Turchia era stato condannato per finanziamento a soggetti aderenti a reti terroristiche ed era già tenuto sotto controllo dai militari di Udine, che erano anche riusciti a rilevare anche la costante opera di proselitismo religioso dell’uomo, proprietario di due attività di ristorazione, nei confronti dei propri dipendenti), invece, a destare la preoccupazione degli inquirenti è stato anche il fatto che avesse acquistato sempre sul web materiale tecnico utilizzato in operazioni belliche. Anche se, è bene specificare, non risulta che attività di terrorismo o affini fossero state pensate né tantomeno progettate dal gruppo per l’Italia.
Faceva proselitismo non solo online e sui social ma anche nei locali che gestiva a Monfalcone, dove viveva, e sempre nella città in provincia di Gorizia voleva aprire una moschea, il 27enne di origine turca arrestato ieri nel blitz. Il 27enne, il ‘Bro turco’ (abbreviazione inglese di ‘fratello’ turco, ndr) come lo definivano altre due dei cinque indagati, la 22enne leader e la 18enne di Spoleto, nelle loro conversazioni, a Monfalcone risulta coinvolto nella gestione di due locali di kebab da asporto insieme al fratello. L’attività di proselitismo – emerge dagli atti – non era solo online ma veniva svolta anche nei locali, ad esempio verso i dipendenti, dove si lasciava andare a innumerevoli commenti e critiche da cui traspariva un sentimento fortemente anti-occidentale. Intonava canti jihadisti pure davanti a minori. Il ‘bro turco’ tra l’altro era oggetto di indagini anche a Udine per il suo percorso di radicalizzazione e per i rapporti con un altro indagato per reati simili. Con questi aveva addirittura pensato di aprire una moschea a Monfalcone, in sfregio all’ordinanza di chiusura di due luoghi di culto. In Turchia invece era stato condannato per finanziamento terroristico.