La scrittura è chiaramente una forma di libertà, concetto richiamato ed invocato costantemente, quando si parla di donne arabe.
“Come altre forme artistiche”, la scrittura è anche “terapeutica e può aiutare a mettere in ordine i nostri pensieri e le nostre emozioni. La scrittura è un’esperienza catartica”, ha dichiarato al sito “Le Ortique” Anna Mahjar Barducci, 39 anni, giornalista e scrittrice italo-marocchina (“Italo-marocchina: storie di migranti marocchini in Europa” è anche il titolo di un suo libro, pubblicato nel 2009 da) e presidente dell’associazione “Arabi Democratici Liberali”. È nata a Viareggio da padre italiano cristiano e madre marocchina musulmana. Ha sposato un ebreo e vive a Gerusalemme dal 2009. Fatti che l’hanno portata ad imparare “a guardare il mondo da più punti di vista, a pensare non solo come la penso io, ma anche come pensa l’Altro e a osservare con gli occhi dell’Altro. Ho imparato l’empatia, che è essenziale non solo per uno scrittore, ma nella vita in generale, per creare e costruire relazioni”.
Il suo ultimo libro, “Identità italiana” (2019), spiega che “non esistono realtà monolitiche e tutto è in perenne movimento, in divenire. Le migrazioni e la globalizzazione portano l’Italia a ridefinire costantemente la propria identità. La sfida dell’Italia è pertanto evolversi, cercando, in un gioco di equilibrismi, di mantenere la propria cultura e tradizioni secolari.” E Anna Mahjar Barducci pensa che la scrittura e la scuola possano aiutare.
Un altro libro che vogliamo menzionare di questa autrice, è dedicato al Pakistan, Paese in cui ha vissuto. Il libro s’intitola “Pakistan Express, Vivere e Cucinare all’Ombra dei Talebani” (Lindau, 2011). Lo citiamo, perché Anna Mahjar Barducci è stata una delle giornaliste musulmane interpellate e che hanno scritto sul caso di Saman Abbas, di cui si continua a cercare il corpo, e su matrimoni forzati.
A tal proposito la Mahjar Barducci ha dichiarato senza peli sulla lingua in un articolo per “Agenzia Radicale”: “Vorrei sentire la stessa veemenza nel ribadire che l’Italia è uno ‘Stato laico’ anche quando si parla di Islam e non solo quando si interviene contro l’ingerenza del Vaticano. I media italiani sembravano ben compiaciuti quando l’UCOII ha emesso qualche settimana fa una ‘fatwa’ per condannare i matrimoni forzati, dopo la tragica vicenda di Saman, senza ricordare a questo organismo che viviamo in uno Stato di diritto e che non abbiamo bisogno di opinioni basate sulla Shari’a, la legge islamica. Non siamo l’Iran, non siamo una regione dell’ISIS, non siamo la Gaza di Hamas, almeno per ora, perché se nessuno dice niente – sul fatto che stiamo creando un pericoloso precedente accettando le emissioni di fatwe – allora ci stiamo avviando sulla strada per diventare un Paese, in cui le libertà individuali vengono calpestate”.
“È chiaro – ha aggiunto – che l’Italia, e l’Occidente in generale, debba risolvere la propria crisi d’identità. Stiamo vivendo in una società che vuole negare e dissolvere l’identità collettiva occidentale, come se fosse il male assoluto, lasciando invece spazio a comportamenti inaccettabili perché dobbiamo ‘rispettare l’Altro’. Ma stiamo davvero rispettando l’Altro?”.
Ha detto di aver visto in Italia donne che indossavano il “burka talebano” e sentirlo difendere da intellettuali italiani in nome di un (finto) rispetto culturale e della “libera scelta”, mentre invece “rappresenta la negazione della libertà della persona”. Per la stessa ragione Anna Mahjar Barducci si rammarica di non aver visto nessuna manifestazione da parte delle femministe italiane. “Ho sentito più parole spese dalle ‘femministe’ per dire che ‘l’Islam non c’entra niente’ con la negazione dei diritti della donna che per difendere i diritti di Saman”. Come ci si improvvisa virologi, parlando di COVID, ci si improvvisa esperti di islam e di Shari’a, ha osservato! Pura ipocrisia!
Al contrario (e perciò la nostra intellettuale si è detta “sinceramente più preoccupata per il futuro dell’Occidente che per quello del mondo arabo musulmano”), ha fatto presente che in Pakistan, l’8 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, le associazioni femminili hanno indetto manifestazioni nelle città più importanti che non sono certo piaciute ai leader islamici. Queste donne hanno chiesto pari eredità con i maschi e di smetterla con i delitti d’onore e i matrimoni forzati.
Un’altra giovane scrittrice che si è messa recentemente in evidenza, è la marocchina Loubna Serraj, vincitrice del 3° Premio “Prix Orange du Livre en Afrique”, lanciato nel 2018 dalla fondazione solidale francese “Orange”. Loubna è stata premiata per il suo primo romanzo “Pourvu qu’il soit de bonne humeur”(“Speriamo che sia di buon umore”), che tratta di violenza domestica. È un dialogo tra madre e figlia, Maya e Lilya, nel Marocco tra il 1950 e del 2020. L’unica strada possibile è l’emancipazione. La Serraj, che è anche giornalista ed opinionista radiofonica, ha un blog su cui parla di letteratura, questioni sociali e politica in modo volutamente anticonformista.
Nel 2016 una giovane scrittrice e giornalista ex aspirante attrice franco-marocchina, Leila Slimani, nata a Rabat 39 anni fa, si è aggiudicata a Parigi, dove vive, il più importante premio letterario di Francia: il Premio Goncourt, vinto per esempio da Marcel Proust, Simone de Beauvoir e Tahar Ben Jelloun. Leila l’ha vinto con il suo secondo romanzo, il best – seller “Chanson douce” (“Canzone dolce”) e l’ha dedicato “al Marocco e alla gioventù marocchina”. Il libro è basato sulla vicenda shock di una baby-sitter che a New York, nel 2012, ha ucciso i bambini di cui doveva occuparsi. In Italia s’intitola “Ninna nanna” ed è stato pubblicato da Rizzoli. Vengono affrontati temi come l’amore, l’accudimento dei figli, il potere, il denaro e i pregiudizi di classe e culturali.
Il primo libro di Leila Slimani, “Dans le Jardin de l’Orge” (“Nel Giardino dell’Orco”, 2014), è ispirato allo scandalo dell’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, arrestato il 14 maggio 2011 con l’accusa di aver tentato di violentare una cameriera del suo albergo a New York; accusa la cui validità non è stata riconosciuta in tribunale e per cui è stata chiesta l’archiviazione poco più di tre mesi dopo, il 23 agosto 2011. Nel romanzo, che si è aggiudicato in Marocco il premio “Mamounia” ed era stato definito da qualche testata italiana “l’anti-‘Sex and the City’,” la protagonista è una donna: una ninfomane, che non riesce più a controllare la sua vita.
Leila Slimani è stata una delle firmatarie dell’appello per la liberazione della giovane marocchina Hajar Raissouni, arrestata e condannata di carcere nel 2019, perché accusata di aver abortito illegalmente dopo essere rimasta incinta fuori dal matrimonio. La ragazza è stata successivamente graziata da re Mohammed VI.
In Italia c’è Saida Hamouyehy, che vive qui dall’età di 6 anni. Ha scritto un racconto e un fumetto intitolati “Attimo stellare” (ispirato al “Piccolo Principe”) e “Modern roman holiday (carpe diem) ispirato a “Vacanze Romane”, pubblicati nell’ambito di un progetto chiamato “Words4link-Scritture migranti per l’integrazione”, lanciato da alcune associazioni che si occupano di intercultura.
Intervistata dal sito “Più Culture”, Saida ha sottolineato il ruolo fondamentale dell’apprendimento della lingua italiana per integrarsi ed evitare il rischio di auto-isolarsi, ma anche che la scuola a volte diventa “un luogo di discriminazione anziché di inclusione” (è stata anche una sua esperienza personale). “Spesso gli insegnanti non colgono la difficoltà di comunicazione e la interpretano come un non voler socializzare; servirebbe una maggiore sensibilizzazione dei docenti in questo senso, ma anche la presenza di mediatori culturali nelle scuole”. Ha scritto anche questo nella sua “Lettera di una ragazza straniera ai suoi coetanei italiani” nel 2018. Ora il sogno di Saida (che ha come modelli Jane Austen ma anche la ben più moderna pittrice Frida Kahlo, che ha dovuto lottare con problemi fisici e di riconoscimento artistico) è scrivere e pubblicare un romanzo.
Una che ce l’ha fatta e a soli 15 anni, nel 2002, è Randa Ghazy, nata a Saronno da genitori egiziani e laureata in Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano. Il suo primo romanzo è “Sognando Palestina” (Fabbri Editore), tradotto in ben 16 Paesi. Parla dell’amicizia che lega alcuni ragazzi nella Gaza allora occupata dall’esercito israeliano.
Nel 2005 esce il secondo romanzo di Randa, “Prova a sanguinare. Quattro ragazzi, un treno, la vita”, anche questo edito da Fabbri.
Del 2007 è il racconto “Lettere volanti”, inserito in una raccolta, e dello stesso anno il romanzo autobiografico “Oggi forse non ammazzo nessuno. Storie minime di una giovane musulmana stranamente non terrorista (Fabbri)”, in cui la Ghazy tratta in modo provocatorio delle difficoltà di giovani musulmani di seconda generazione. L’ex precoce scrittrice ha anche collaborato con “L’Espresso”, “Panorama” e “Internazionale”, scrivendo articoli sul tema dell’immigrazione.
Della scrittrice e regista franco-algerina Faiza Guene, 36 anni, è il romanzo pubblicato in Italia con il titolo “Un uomo non piange mai” (Il Sirente, 2017). Tratta di integrazione degli immigrati di origine araba in Francia. Protagonisti sono tre fratelli musulmani di origine algerina: il desiderio di integrazione della prima, ha come conseguenza il rompere i ponti con la famiglia; la seconda è completamente non integrata, perché frequenta solo il marito algerino e i parenti; il terzo sceglie una terza via di compromesso tra il modus vivendi francese e le proprie radici. Il “succo” è l’importanza di costruire forti legami affettivi in generale, al di là della provenienza e della cultura.
La giornalista, scrittrice e sceneggiatrice franco-marocchina Saphia Azzedine, nata ad Agadir, 41 anni fa, 32 dei quali vissuti in Francia (dove si è laureata in Sociologia), ha pubblicato, anche lei con “Il Sirente” nel 2017, il romanzo “Mecca – Pukhet”, che racconta la storia di emancipazione dalla famiglia tradizionalista della giovane di origine marocchina Fairouz.
Il primo romanzo di Saphia Azzedine è del 2005 e s’intitola “Confidences à Allah” e nel 2009 esce il secondo, “Mon père est femme de ménage” (“Mio padre è una donna delle pulizie”), da cui due anni dopo ha tratto un film, che ha diretto. Queste sono solo alcune di questa categoria di giovani donne intellettuali di cui poco si parla e che con il loro attivismo attraverso la penna, possono combattere gli stereotipi sulle donne che provengono da certi contesti e dar coraggio alle altre.
Di Alessandra Boga