Aslı Erdoğan la scrittrice turca che vive in esilio dal 2017 – Una donna si risveglia sul bordo di un burrone. Non sa com’è arrivata fin lì, ha le mani e la giacca coperte di sangue. Ogni tentativo di risalire rischia di farla sprofondare più giù. Vede la bocca del precipizio e sente il richiamo del vuoto. Intanto il cielo si rabbuia e minaccia pioggia. Sa che quella pioggia le sarà fatale.
È un cortometraggio, me l’ha mandato Aslı. Ci scambiamo spesso link di YouTube: a volte sono video divertenti, come quelli con i gatti, a volte sono drammatici. Mi scrive che questo non è esattamente un film horror, ma un incubo astratto. Dice che è la metafora della sua vita.
In esilio
Aslı Erdoğan è una scrittrice turca, che vive in esilio dal 2017. L’anno prima è stata arrestata: una notte i militari irrompono in casa sua senza mandato, mettono tutto a soqquadro e la portano via. Passerà quattro mesi in carcere, prima di essere rilasciata. L’accusano di essere vicina al terrorismo curdo e di scrivere contro il governo. L’inizio del processo e il rischio di un nuovo arresto la spingono a lasciare Istanbul.
Dapprima è in Francia, poi in Germania. Intanto viene assolta, ma ciò non le permette di tornare a casa in sicurezza e l’isolamento è ancora più acuito dalla pandemia. Lo scorso dicembre le viene notificato un nuovo processo a carico, con le stesse accuse: le sue parole minacciano la pace nazionale.
Tra gli scritti raccolti in Neppure il silenzio è più tuo Aslı scrive: «Passo come un fantasma per le strade da cui sono venuta, le stesse strade, vie note e conosciute che sembrano essersi allungate e scorciate, deformate. […] E anche quelle, come se non mi riconoscessero, non riescono a trasportare questo nuovo peso, questa stanchezza…».
A Roma
Conosco Aslı a fine 2017, per puro caso.
Un amico la ospita a Roma ma deve tornare dalla famiglia per Natale. Mi avverte che è timida e vorrebbe visitare la città. Quando la incontro, non so praticamente nulla di lei. Iniziamo un giro a piedi in cui è lei a guidarmi: mi porta a Santa Maria del Popolo per vedere Caravaggio; poi vorrebbe vedere la Cripta con le ossa dei Cappuccini, ma arriviamo che hanno appena chiuso.
Durante il cammino fuma e beviamo caffè. Mi racconta che è stata ricercatrice di fisica al Cern e a Rio. Parla dell’Amazzonia e della febbre che l’ha quasi uccisa in Bolivia. Mi dice di un tempio che si trova in Turchia al confine con la Siria, il Göbeklitepe: un’architettura rara, costruita sottoterra e protesa verso il ventre della terra, non verso il cielo. Le piacerebbe rivedere quel sito. Poi mi racconta del carcere e lo fa soprattutto con gli occhi. Di quella parte ricordo poco, ero molto emozionato.
Più tardi ci salutiamo. Lei sarebbe partita il giorno dopo per tornare in Francia. Per un attimo ho pensato di rimandare i miei impegni e camminare ancora con lei, ma ci diciamo arrivederci. Prima o poi ci saremmo rivisti.
Scrive in La città dal mantello rosso, ambientato a Rio: «In queste terre semiselvagge sono sola, in preda a un sentimento tutto nuovo di libertà e di assedio. […] Posso raccontare le menzogne che voglio, costruirmi il passato che desidero, correre dietro le fantasie più riprovevoli».
In Svizzera
Rivedo Aslı nel 2018, in Svizzera.
È ospite di Babel, un festival di letteratura e traduzione. Gli organizzatori mi chiedono di andarla a prendere all’aeroporto di Zurigo e portarla a Bellinzona. Non la vedo da un anno, ci siamo scritti poco e male; mi sento come un poliziotto di frontiera e sono a disagio, allora le compro un fiore. Lei arriva ed è in imbarazzo per quel fiore. Preferisce prendere un caffè e fumare. A Zurigo beviamo ancora due caffè e ci dimentichiamo della coincidenza dei treni. Prima ero un poliziotto, ora sento che siamo entrambi evasi.
Mi racconta della Francia, dei premi letterari e del sostegno che ha ricevuto da molte istituzioni. Mi dice degli amici che sono morti e di cui ha saputo da lontano.
Ci chiamano gli organizzatori, preoccupati di non avere nostre notizie. Allora saliamo su un treno e mi racconta della sua passione per il balletto, dei suoi anni da ballerina; dice che le hanno proposto di scrivere un libretto per l’opera, ma non è facile scrivere in questo momento.
La sera stessa c’è un concerto di Arto Lindsay al teatro civico di Bellinzona. Noi sediamo nell’ultimo anello in alto. A un tratto mi giro e Aslı non c’è: poco più in là nel buio danza come in un rituale.
In Hayatın sessizliğinde (in Francia Requiem pour une ville perdue) Aslı scrive dal suo esilio: «Non sai dove andare. Te ne vai, fai un lungo respiro, esci da una grande porta, enorme e invisibile, e il mondo sembra uscire con te. Niente ti chiama, nessuna voce, nessun silenzio».
In Germania
L’ultima volta che vedo Aslı è lo scorso novembre, in Germania.
Mi avverte che non si sente molto bene e che perciò non potrà fermarsi a lungo. Andiamo in un ristorante vietnamita con il giardino interno, dove dice che sembra di stare davvero ai tropici. Ci dicono che possiamo sedere solo se ordiniamo un pasto completo. Lei non ha fame e vorrebbe andarsene, infastidita da quei modi, allora io decido di ordinare per due affinché ci lascino sedere in tranquillità.
Non le piace parlare in tedesco. Io le ripeto una frase di Kader Abdollah, che parla olandese per raccontare la sua storia ma non si farà seppellire in Olanda, sotto quella pioggia. Le dico anche che presto sarebbe uscita una mia raccolta di poesie in cui le ho dedicato un testo. Le chiedo il permesso di pubblicare la poesia e lei risponde che non c’è bisogno di chiedere il permesso.
Usciamo e camminiamo, lei fuma e beviamo caffè. Mi parla di casa sua a Istanbul e di quella volta che ebbe per amico un topo che aveva iniziato a fidarsi di lei. Ci diciamo arrivederci, come ogni volta senza un appuntamento preciso.
Il nuovo processo
Quel giorno Aslı mi ha anche raccontato del nuovo processo a Istanbul. Le autorità turche la accusano sulla base di quegli articoli, scritti a suo nome, che sembrano incitare alla rivolta.
C’è un documentario su Aslı, dal titolo Incomplete Sentences (regia di Adar Bozbay), che racconta un episodio singolare: in un articolo uscito su Repubblica il 15 ottobre 2019 Aslı critica il sistema educativo, affermando che si ispira a forme di sciovinismo militare; l’articolo viene intitolato Noi turchi indottrinati sin dalle scuole contro i nemici curdi, parole che non ha mai proferito nel corso dell’intervista. Da lì questo titolo rimbalza su altre testate internazionali, sempre più esacerbato nei toni, fino a giungere sulla stampa turca nella forma travisata. Questa nuvola di link e frasi erroneamente riportate, ha fornito il pretesto per un nuovo processo nei suoi confronti.
Ma c’è altro che mi ha detto in quell’occasione. Ha lamentato uno scarso interesse verso il suo caso per due motivi: il primo è che è una donna e questo ridimensiona per la stampa e le autorità anche il pericolo cui sta andando incontro; il secondo è che la sua opera letteraria non verte principalmente sulla politica turca e questo non interessa alle case editrici.
Tutto ciò ha fatto sì che nel corso degli anni diminuisse gradualmente l’attenzione per la vicenda di Aslı, a rischio anche della sua incolumità.
Scrive Aslı nel Requiem: «È la verità, non sto mentendo, ma le mie parole si frantumano sotto il tuo sguardo e si disperdono sulle pietre».
Il 16 dicembre c’è stata la prima udienza del nuovo processo a Istanbul, con il rinvio al prossimo 10 febbraio. I giudici affermano di voler esaminare molte fonti giornalistiche per esprimere un verdetto. Dietro questa dichiarazione si cela un’istanza di giustizia e verità che probabilmente non verrà ascoltata.
Il rischio è l’annientamento di una scrittrice tra le voci più importanti del suo tempo, che ho l’insperata fortuna di avere come amica. Una persona che ascolta e consiglia nonostante tutta la paura che popola il suo quotidiano; che insegna a vagabondare e perdersi e in qualche modo rinascere; che invita a esplorare la spiritualità nelle parole e nelle azioni; che ha saputo accogliere l’amicizia di un estraneo in cambio di un po’ di fiducia, per combattere forse il desiderio di sparire del tutto da questo mondo.