L’incontro sui temi della sicurezza e dei diritti umani in Medio Oriente che si è svolto giovedì 27 settembre presso il ministero delle Politiche agricole, è stata l’occasione per fare il punto della situazione sui vari focolai di crisi che restano accesi nella regione: Siria, Iraq, Yemen, Libia, per citare quelli attualmente più incandescenti. Il dato maggiormente rilevante che emerge dall’analisi dei recenti sviluppi è la convergenza geopolitica in corso tra Iran, Turchia e Qatar. Una convergenza basata non semplicemente su pragmatici interessi geopolitici o economici, come la contrapposizione con il Quartetto arabo antiterrorismo guidato da Arabia Saudita ed Emirati Uniti, o le costanti tensioni con gli Stati Uniti (sebbene il Qatar continui a mantenere relazioni improntate alla cooperazione con Washington nel quadro dei suoi giochi multipli a cui neppure l’amministrazione Trump sembra riuscire a sottrarsi).
Il filo rosso (dell’estremismo di matrice islamista e del jihad) che lega questi tre Paesi del Medio Oriente in maniera sempre più stretta è quello ideologico e il suo nome è chiaramente identificabile nella Fratellanza Musulmana. Dell’alleanza organica che unisce i destini dei regimi di Recep Tayyip Erdoğan e del clan Al Thani ai Fratelli Musulmani è già stato detto e scritto molto, e il mio ultimo libro “I Fratelli Musulmani e la conquista dell’Occidente” vuole essere una summa a cui far riferimento per meglio comprendere gli obiettivi e le modalità operative degli “Ikhan Al Muslimeen”, insieme alla loro “politica estera” comune con Istanbul e Doha. Meno nota, invece, è la derivazione politico-ideologica del regime khomeinista, che prende le mosse sempre dalla “predicazione” della Fratellanza Musulmana.
A gettare luce sull’influenza degli “Ikhwan” sui fautori dell’islamismo politico in salsa sciita divenuto dominante in Iran è il giornalista iraniano basato a Londra, Amir Taheri. In una serie di tweets indirizzati principalmente a coloro che lo hanno criticato per aver evidenziato in alcuni suoi articoli la derivazione del Khomeinismo dalla Fratellanza Musulmana, Taheri ha risposto fermamente facendo rilevare che la contaminazione dello sciismo persiano ad opera degli “Ikhwan” risale agli anni ’40, quindi anche prima che Khomeini diventasse membro dei “Fedayeen Islam”, organizzazione sciita che traeva appunto ispirazione dai Fratelli Musulmani. Inoltre, il giornalista ha ricordato la fascinazione giovanile che aveva colpito l’attuale “Guida Suprema” Ali Khamei nei confronti dell’ideologo simbolo della Fratellanza, Sayyid Qutb, di cui il successore di Khomeini ha tradotto alcune “opere” in farsi.
La continuità dei Fratelli Musulmani ai vertici del regime khomeinista, dice sempre Taheri, è oggi garantita anche da altre figure di spicco quali Ali Shamkhani, Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale Islamico, e l’ayatollah Abbas Kaabi, entrambi “Ikhwan” sciiti. Oltre all’ultra-conservatorismo nell’interpretazione e nell’applicazione dei principi religiosi, il terreno d’incontro tra l’islam politico sunnita e sciita è l’estrema idiosincrasia nei confronti dell’Occidente, il “grande satana” tanto per Khomeini quanto per Qutb. È stato l’odio nei confronti del nemico comune ha consentire il superamento dello storico antagonismo tra sunniti e sciiti in nome di un panislamismo mondiale da scagliare contro l’Occidente; panislamismo farcito da una retorica che oggi si potrebbe definire ultra-populista e che vede l’ordine mondiale diviso tra grandi potenze e popoli schiacciati dall’imperialismo occidentale, dei quali l’Islam guiderà il riscatto fino alla sconfitta del “grande satana” e al ripristino della giustizia: gli stessi concetti espressi da Erdogan nel suo recente discorso all’Assemblea generale della Nazioni Unite, equivalente a un’autentica dichiarazione di guerra.
L’intesa turco-iraniana è oggi in crescita, cementata dal no di Erdogan al rispetto delle nuove sanzioni americane contro Teheran, e offre alla Fratellanza Musulmana, fonte originaria ormai conclamata dell’islamismo, un ulteriore elemento di spinta che va ad aggiungersi agli ingenti finanziamenti provenienti dal Qatar. D’altro canto, di fronte a un tale allineamento geopolitico e ideologico che costituisce una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, l’Europa continua a chinare il capo e si prepara anch’essa ad aggirare le sanzioni americane contro gli ayatollah, a sostenere economicamente il Sultano, malgrado abbia egli stesso ridotto allo stremo la Turchia, e a coltivare le già “eccellenti” relazioni politiche ed economiche con il Qatar, per citare la Farnesina.
Il mondo arabo, al contrario, si è coalizzato contro questo blocco del Medio Oriente islamista e non intende allentare il meccanismo di difesa innalzato per farvi fronte. Il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Adel Al Jubeir, ha dichiarato che l’embargo verso il Qatar potrà durare anche 50 anni, finché Doha non “farà la cosa giusta e cambierà comportamento”. Uno spiraglio di apertura, questo, al regime di Hamad e Tamim Al Thani, affinché cambi rotta rispetto alle politiche sin qui attuate. Il ritorno del Qatar alla moderazione che lo aveva contraddistinto fino al 1996, anno del colpo di stato di Hamad a danno del padre Khalifa, l’emiro di allora, toglierebbe infatti forza e credibilità al nascente polo turco-iraniano dell’islamismo mondiale che guarda Oriente ed Occidente con gli occhi della Fratellanza Musulmana.
di Souad Sbai per L’Opinione delle Libertà