Sembra passata un’eternità da quel terribile 19 novembre del 2011. Eppure nove anni non sono molti se paragonati agli anni di tortura subiti da Rachida Radi, la giovane marocchina morta a Sorbolo Levante, per la quale mi sono molto battuta. Negli anni ho cercato, per quanto possibile, di omaggiarla ogni volta ne avessi l’opportunità. Perché quello che è capitato a Rachida non doveva più succedere a nessun altro.
Anche se la storia ci ha insegnato ben altro.
Ma oggi è la giornata di Rachida, che a soli 35 anni è stata massacrata a colpi di martello dal marito, “rea” di essersi ribellata ai maltrattamenti che subiva quasi quotidianamente. “Rea” di voler finalmente condurre una vita normale. E, neanche a dirlo, per essersi avvicinata al Cristianesimo, nel quale ha sempre trovato un rifugio emotivo alle sue continue umiliazioni. Chi l’ha conosciuta la descrive come una persona dal sorriso grande, buono, che faceva le pulizie in chiesa per poter essere libera di pregare.
Il 19 novembre 2011 la follia di un uomo, che non poteva sopportare l’allontanamento della moglie dall’odiosa ortodossia radicalista in cui l’aveva segregata, ha posto fine alla sua esistenza. E, oltre il danno la beffa, Rachida ha impiegato ben 50 giorni per trovare una degna sepoltura perché il suo corpo non lo voleva nessuno.
Oggi non voglio solo rievocare il coraggio di Rachida Radi, che considero alla stregua di una martire per la sua forza di volontà nel voler combattere per la libertà, contro l’odio e l’estremismo islamista, come sempre fomentati dall’ignoranza.
Vorrei anche ricordare il conto aperto con quel Cristianesimo che avrebbe potuto e dovuto tutelarne la dignità almeno da morta. E che, invece, fa finta che non sia mai esistita e lascia che sia ricordata per essere un’apostata e non una Serva di Dio. Lei che per amore della chiesa ha dato la sua vita.
Rachida è morta da nove anni, e la sua storia è una ferita aperta che non riesce ancora a rimarginarsi.
di Souad Sbai