Femminicidio: una parola orrenda, dal suono aspro, in netto contrasto con la dolcezza felina del sostantivo femmina e del più composto e omnicomprensivo termine donna. Femminicidio: Donne uccise da uomini, perché sono donne. Questo è il femminicidio. Una forma di omicidio, che matura per lo più in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali d’incerta stabilità. Il termine femminicidio fu usato per la prima volta negli anni 90, per qualificare gli omicidi basati sul genere, in cui la vittima è una donna “in quanto donna”, al fine di rendere “visibile” il fenomeno. Barbara, sfrontata evoluzione di ciò che una volta era il delitto d’onore, esercitato dagli uomini sulle donne. Eh sì, perché in barba alle pretese di civiltà evoluta che si accampano da ogni pulpito, la barbarie del delitto d’onore non è mai stata estirpata ma si è evoluta nella sua forma più cruenta, arricchita da ogni forma di cattiveria e sadismo possibile. Una volta era tutradisciiotammazzo. Oggi è: ti torturo, ti umilio, mi abbevero della tua sofferenza e poi, solo dopo, ti cancello per sempre.
Più che essere combattuto, oggi, il delitto sulle donne è denunciato. Bene. È però anche sfruttato in tutta la sua tragica spettacolarità: Molto male. Ferite, torture, gangli di vita personale: tutto sbattuto in prima pagina e profanato nelle più intime pieghe di una vita che non dovrebbe mai e poi mai diventare chiacchiera da salotto. Questo non è diritto di cronaca. Si trovi pace: nessun omicida smetterà di uccidere perché di quel genere di delitto ne parla la starlette di turno, diventata opinionista. Anzi, in quel passaggio mediatico la mediocrità frustrata troverà la sublimazione in una categoria follemente eroica: eccoavoi l’epica del male, il femminicida, l’assassino. Il mediocre frustrato improvvisamente nobilitato nella più distorta delle visioni. E giù articoli, servizi giornalistici, trasmissioni. Il mondo è pieno di sapienti, informati e detentori di verità. Troppa spazzatura mediatica che non giova alla soluzione del problema, ma riempie vuoti d’informazione molto più ampi e d’altro genere. Francesco Petrarca, che in mezzo ai tristi pianti si faceva assalire dal dubbio, lo indicò come la giusta strada. La strada del dubbio fu seguita anche dal meno poetico e più pragmatico Sherlock Holmes. Dubitiamo dunque.
La spettacolarizzazione della sacrosanta quanto doverosa denuncia dei casi di femminicidio, a fronte della mancata reale risoluzione della problematica generale, potrebbe essere impiegata per distogliere l’attenzione dalla violenza sistemica della società. Una brutta pratica per nasconderne di peggiori. Vietato illudersi infatti che la violenza sia solo quella di genere. Il tempo che viviamo è il tempo della violenza, una violenza pienamente realizzata: il tempo della violenza economica, della dittatura silenziosa dei mercati, del conflitto generazionale che violenta la famiglia. L’Italia si è retta e sviluppata fondando sulla forza della famiglia. Oggi si prova a disgregare questa forza con ogni violenza possibile, e quella di genere è perfettamente inserita nel quadro.
Le vittime note e denunciate nel 2019 furono 111, nel 2020 112, da gennaio ad oggi 22. Deduzione: vita libera o lockdown il risultato non cambia. Si è tanto detto a proposito degli effetti deleteri della pandemia sul problema della convivenza forzata, ma alla luce dei risultati, il problema è di tipo diverso, senz’altro culturale. Sono problemi culturali anche il suicidio delle vedove indiane, la fasciatura dei piedi in Giappone e l’aborto selettivo in Cina, le sterilizzazioni forzate, le mutilazioni genitali, l’acidificazione delle donne indù che rifiutano un matrimonio o non sono in grado di pagare una dote consistente, la legalizzazione dello stupro del coniuge, il matrimonio a tempo in uso nei paesi di religione musulmana (che nasconde il fenomeno della prostituzione legalizzata). Paese che vai, violenze subite dalle donne che trovi. Radici culturali profondamente diverse richiedono altrettanto diversi approcci al problema ma la cura di un male comincia con la prevenzione.
La prevenzione comincia nella famiglia, in quell’educazione al rispetto e alla sopportazione, senza distinzione di genere, che pare scomparsa dal panorama degli insegnamenti genitoriali. Attenzione: sopportazione, non tolleranza. Il famoso “no” detto ad un ragazzino, oggi provoca spesso reazioni spropositate del pargolo che i genitori si affrettano a sedare mutando il proprio divieto, la propria negazione, in un “sì”. Il peggior regalo per un figlio. Maschio o femmina che sia. Un compito dei genitori è quello di educare la genia a sopportare un diniego, a subirlo con dignità e forza d’animo. Non a tollerare, a sopportare. L’Educazione era essenziale ad Atene come a Sparta e il coraggio si estrinsecava nella prudenza, temperanza, forza d’animo e obbedienza.
Educazione significa anche imparare ad affrontare un licenziamento, una separazione, un divorzio, rendersi conto che al diniego si sopravvive. Sono le basi dell’educazione, dal latino “educere”, condurre fuori, guidare. Un compito che gli adulti hanno rinunciato ad assolvere. Cominciare da subito please. Domani un maschio adulto, abituato fin da piccolo a sbattere i piedi a terra, a rompere tutto urlando per ottenere ciò che gli è stato negato, troverà naturale picchiare torturare o uccidere la donna che in qualche modo gli opporrà una diversa volontà. Saggezza da manuale, quella degli spartani ed ateniesi: educare significa formare, addestrare al coraggio. Il coraggio non è salire sui muri e buttarsi di sotto, tagliarsi per vedere il proprio sangue, correre a 100 all’ora per le strade di città o picchiare e torturare una donna fino ad ucciderla. Significa prudenza, temperanza, fortezza e obbedienza. Guarda un po’.
Di Fabiana Gardini