Che io sia sempre d’accordo con Souad Sbai ormai è un evento scontato, così come condivido il suo disegno socio-culturale ormai è un evento scontato, così come condivido il suo disegno socio-culturale sulla questione inflazionata dell’integrazione. Dissento solo sul suo un certo suo ottimismo quando riporta il suo esempio personale.
Lei è una persona di eccezionale valore, con una famiglia supportante, una motivazione interiore ben superiore al semplice interesse intellettuale, con una idea precisa della sua identità psichica. Lei è una persona onesta, nel senso più elevato e complesso del termine.
Fatta questa debita precisazione, condivido la sua puntuale elaborazione del progetto integrativo: fondamentale la condivisione delle leggi e delle procedure dello Stato; indiscutibile la libertà di culto e di espressione dello stesso; indispensabile l’accettazione dei diritti civili della persona; imprescindibile l’intervento educativo sia scolastico che relazionale tra pari.
C’è un serie di “ma” in questo proponimento, che derivano dal mio condizionamento professionale e giudiziario a cercare il pelo nell’uomo, a stanare le contraddizioni, insomma a fare l’avvocato del diavolo.
Condividere leggi e procedure è un atto già sperimentato: in Olanda il Denk, il primo partito musulmano con tre deputati, ha usufruito democraticamente delle opportunità offerte, per poi presentare programmi dettagliati con il marchio islamista a difesa della loro minoranza.
La libertà di culto e di espressione gestita come e da chi? Con quale criterio saranno scelti i predicatori? Già in Francia più di qualcuno si è opposto all’idea di un albo degli imam. Del resto, sarebbe come se lo Stato italiano pretendesse di valutare il curriculum e l’impostazione teologica dei preti. Solo in Cina e in Unione Sovietica ci sono sufficientemente riusciti.
Se l’impostazione religiosa – a maggior ragione quando essa è connessa a quella giuridica – prevede determinati comportamenti e riti, ad esempio il velo, la sottomissione della donna o il cibo halal, chi provvederà ad impedire queste tradizioni, per quanto esse siano inopportune, oppressive e aberranti?
Il percorso scolastico e la frequentazione amicale sono due dispositivi di eccezionale importanza per una integrazione che sia propriamente interiorizzata e partecipata, ma – e questo sarebbe il quarto “ma” – chi può intervenire sulle famiglie di minori per impedire l’abbandono scolastico, la chiusura domestica delle bambine, l’isolamento sociale di maschietti?
L’operazione proposta da Souad Sbai è inevitabile e doverosaper creare un tessuto sociale di appartenenza e per stroncare le superflue e pretestuose accuse di discriminazione: quindi, da qualche parte bisogna pur cominciare. Ritengo, però, che la strada sia impraticabile senza il massiccio intervento di personaggi autorevoli e moderati della comunità islamica, che facciano da guide e da esempi rispetto a soggetti integralisti e dogmatici, sempre molto presenti e con un buon ascendente carismatico.
La taqiyya esiste ed è riconosciuta, per cui, come dice il saggio orientale: <<È meglio dire non si sa mai, che dover dire un giorno se lo avessi saputo>>
Di Adriano Segatori