Ultima chiamata per l’Europa – La prevista offensiva russa nella regione orientale ucraina del Donbass sarebbe già iniziata come ha detto nei giorni scorsi Vadym Denysenko, consigliere del ministro degli Interni ucraino, e come si evince dai progressi, lenti ma persistenti, dell’avanzata russa nel sud-est dell’Ucraina e che potrebbero consolidarsi ora che vengono segnalati in afflusso nella regione brigate precedentemente schierate nell’area di Kiev e ora che la quasi totale caduta di Mariupol permette a Mosca di impiegare almeno un paio di brigate per pressare le forze ucraine nel Donbass da sud.
I militari ucraini e la NATO hanno rilevato l’afflusso di rinforzi russi nel Donbass dove in realtà i russi non hanno mai smesso di avanzare lentamente fin dall’inizio dell’operazione speciale il 24 febbraio nella provincia di Luhansk e in quella di Donetsk dove è trincerato il grosso delle 10 brigate dell’esercito ucraino schierate tra Dnipro, Kramatorsk e Slovyansk e composte dai migliori reparti dell’esercito ucraino.
Si tratta, secondo stime confermate anche dalle milizie del Donbass, di circa 90mila militari contro i quali i russi starebbero concentrando circa 100/120 mila combattenti.
Gli ucraini occupano postazioni consolidate in otto anni di guerra del Donbass e che avrebbero dovuto costituire il trampolino di lancio di un’offensiva che a inizio marzo avrebbe dovuto permettere di conquistare i territori in mano alle milizie filorusse.
Kiev ha sempre negato un simile proposito ma nei giorni precedenti l’attacco russo si erano intensificati i bombardamenti dell’artiglieria ucraina sulle postazioni dei filo-russi. Inoltre, Mosca ha mostrato un documento che illustra i piani di questa offensiva che sarebbe stato trovato in un comando militare ucraino espugnato ma la cui veridicità non è stata verificata da fonti neutrali.
L’imminente offensiva ucraina potrebbe fornire qualche indicazione circa le ragioni per cui Mosca abbia scatenato l’attacco all’Ucraina nel momento meno adatto considerato che in marzo il disgelo trasforma il terreno argilloso in un mare di fango. Non a caso Hitler e i suoi generali pianificarono l’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’invasione dell’URSS che prese il via proprio dall’Ucraina, per fine aprile del 1941 (poi slittata al 22 giugno).
Queste valutazioni spiegherebbero anche perché i russi abbiano aperto diversi fronti secondari rispetto al Donbass e a Mariupol, puntando su Sumy e Kiev probabilmente per attirarvi truppe ucraine che diversamente avrebbero potuto incrementare lo sforzo sul Donbass, oltre a favorire l’avvio di trattative.
Oggi il concentramento dei migliori reparti ucraini in questo settore costituisce per Mosca l’occasione di mettere fuori combattimento la gran parte delle capacità militari di Kiev. Da diversi giorni vengono colpiti dai russi i rifornimenti, i depositi di armi (incluse quelle fornite dall’Occidente), carburante, munizioni e viveri ucraini nell’Ucraina centrale e occidentale e viene bersagliata la ferrovia che da Kiev conduce al Donbass.
Azioni che preparano il terreno all’offensiva limitando la capacità di Kiev di rifornire e rinforzare le truppe nel Donbass in vista di uno scontro sanguinoso che avrà con ogni probabilità il suo epicentro tra Kramatorsk e Slavyansk.
Una battaglia campale come non se ne sono viste in Europa dalle ultime fasi della Seconda guerra mondiale a cui esiste forse una valida alternativa considerato che il comando russo finora ha cercato di limitare per quanto possibile le perdite.
L’accerchiamento delle forze ucraine potrebbe oggi essere alla portata delle forze russe che punterebbero a chiudere la morsa a est di Dnipro, di fatto isolando le truppe di Kiev nel Donbass le cui perdite in termini di mezzi potrebbero essere tali da limitare la mobilità dei reparti.
L’accerchiamento permetterebbe di scongiurare un attacco frontale alle postazioni ucraine e una battaglia “trincea per trincea” favorendo una trattativa che scongiuri la carneficina e che consenta agli ucraini di ritirarsi con onore dal Donbass e a i russi di conseguire gli obiettivi militari che si erano prefissati.
Molto dipenderà dalla disponibilità ucraina di accettare un negoziato su cui al momento è difficile scommettere dopo che gli anglo-americani, veri e propri “azionisti di maggioranza” non solo della NATO ma anche del governo e delle forze armate ucraine, sembrano puntare decisamente sul prolungamento e sull’escalation del conflitto riducendo le possibilità di un compromesso tra Mosca e Kiev.
Incomprensibile che questa linea venga sostenuta anche dall’Unione Europea che ha portato a 1,5 miliardi di euro gli aiuti militari a Kiev in seguito alle bellicose dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera, Josep Borrell.
C’è di che preoccuparsi se quella stessa Ue incapace di schierare forze consistenti e risolutive nelle aree di crisi di tutto il mondo punta ora sul prolungamento di un conflitto convenzionale che si combatte ai suoi confini orientali.
Un conflitto in cui l’Europa ha solo da perdere in termini di approvvigionamenti energetici e di possibile allargamento o escalation di una guerra combattuta sul territorio europeo le cui conseguenze economiche non si avvertiranno nel Wisconsin o nel Delaware, ma già si vedono in Italia o in Germania.
Per questo l’Europa avrebbe dovuto porsi già negli anni scorsi come mediatore di un negoziato teso a risolvere il conflitto nel Donbass. Del resto l’acquisto di ingenti quantitativi di gas russo che riempiono le casse di Mosca (ma anche di Kiev grazie al transito nei suoi gasdotti) garantirebbe all’Europa un potere contrattuale formidabile nei confronti dei due belligeranti.
Oggi le possibilità di mettere in atto una decisa azione diplomatica europea si sono forse ridotte come sembrerebbe indicare l’accoglienza entusiastica riservata a Kiev al premier britannico Boris Johnson e il rifiuto del presidente ucraino Volodymyr Zelensky di ricevere l’omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier per i suoi rapporti con Mosca e per aver sostenuto il progetto del gasdotto Nord Stream 2.
Non va però dimenticato che i gasdotti ucraini, che nessuno dei belligeranti sembra voler colpire, continuano a pompare gas russo verso l’Europa e alla stessa Ucraina.
I russi vogliono sostanziale autonomia per il Donbass, il che non significa necessariamente che queste province debbano essere annesse da Mosca, e vogliono che Kiev non entri nella NATO né sia una potenza dotata di armi strategiche. Putin ha sempre dichiarato di non voler conquistare l’intera Ucraina, compito molto arduo e che porterebbe a costituire una nuova “cortina di ferro” mentre i russi puntano ad avere un “cuscinetto” che separi la Federazione Russa dalla NATO.
Per gli europei sarebbe quindi conveniente e necessario risolvere il conflitto con un compromesso che conceda a Mosca almeno parte delle garanzie di sicurezza richieste e a Kiev l’accesso ad ampi aiuti economici in vista dell’ingresso nella UE he, almeno a parole, Bruxelles sembra aver già accordato.
Un’iniziativa che consentirebbe forse di ridurre la strabordante influenza anglo-americana su Kiev, che certo non favorisce gli interessi europei, smorzando tensioni militari che minacciano la sicurezza dell’intero continente.
Basti pensare che la guerra in Ucraina sta portando anche Svezia e Finlandia a guardare con determinazione all’ingresso nella NATO, obiettivo comprensibile anche per due stati tradizionalmente neutrali ma vicino all’Occidente e che puntano sull’ombrello nucleare garantito dagli Stati Uniti ai membri dell’Alleanza Atlantica per scongiurare il rischio di un attacco russo.
“Non darò alcun tipo di calendario su quando prenderemo le nostre decisioni ma penso che accadrà abbastanza velocemente – ha detto il premier finlandese Sanna Marin – entro settimane, non mesi”.
L’adesione di Helsinki e Stoccolma costituirebbe un grande successo per i “falchi” su entrambi i lati della barricata. A Washington si otterrebbe l’effetto di accentuare l’escalation dei rapporti con Mosca erigendo un muro sempre più alto tra Europa e Russia e potenziando il controllo strategico statunitense sugli europei.
A Mosca i fautori della minaccia portata dalla NATO avranno buon gioco nel vedere confermati i loro timori anche tenendo conto che il confine russo- finlandese estenderebbe notevolmente la nuova “Cortina di ferro” tra la Federazione Russa e la NATO.
La mobilitazione dell’Europa per fermare la guerra in Ucraina è quindi necessaria e urgente per i nostri interessi strategici con l’obiettivo di garantire la fine delle ostilità, la rimozione delle sanzioni e il ripristino dei normali rapporti energetici con Mosca, considerato che le alternative valutate finora appaiono attuabili solo entro alcuni anni, quantitativamente insufficienti, economicamente svantaggiose e non garantite nel tempo in termini di stabilità e affidabilità.
Paradossale in tal senso il caso dell’Italia che per fare a meno del gas russo si rivolge ad Algeria, Egitto e Africa. Algeri non è proprio un esempio di democrazia e tutela dei diritti umani ed è il miglior alleato di Mosca in Nord Africa al punto che la flotta russa fa spesso tappa nei porti algerini. Circa l’Egitto vale la pena ricordare le tensioni nei rapporti bilaterali determinate dal “Caso Regeni” con l’incriminazione in Italia dei vertici della sicurezza egiziana e le recenti polemiche suscitate dalla fornitura di due fregate FREMM alla Marina del Cairo. Tutto dimenticato? Tutto risolto?
Quanto al Congo, al Mozambico e all’Africa in generale si tratta di fornitori che non offrono certo esempi di stabilità mentre gli approvvigionamenti di gas liquido via nave comportano costi elevati e quantità limitate in un momento in cui proprio sui costi energetici si giocherà la sopravvivenza e la competitività dell’industria europea sui mercati.
Meglio ricordare anche che il consolidamento delle forniture russe di gas venne sostenuto in Europa proprio come risposta affidabile con quantità garantite e prezzi stabili (pagati peraltro in euro invece che in dollari) all’instabilità dei fornitori in Nord Africa e Medio Oriente.
Durante i fatti del Maidan del 2014 a Kiev, Victoria Nuland, all’epoca sottosegretario del Dipartimento di Stato per gli affari europei ed euroasiatici, ben fotografò con l’espressione “l’Europa si fotta!” l’approccio degli Stati Uniti nei confronti degli interessi europei.
Oggi più che mai è evidente che l’Europa si trova di fronte all’imperativo di rispondere all’ultima chiamata per dimostrare la propria esistenza come soggetto geopolitico. L’ultima prima di essere fottuta!