Parlando della necessità di un nuovo Piano Marshall per la ricostruzione dell’Ucraina dal palco dell’Atlantic Council a Washington, il presidente del Consiglio Mario Draghi, con quel riferimento storico, ha in qualche modo colpito nel segno. Nel senso che rimandare al Piano Marshall, in questo momento e uscendo dalla retorica che spesso si utilizza facendo riferimento ad esso, significa inquadrare nella giusta dimensione storica la fase che stiamo vivendo.
Il Piano Marshall ha rappresentato per il nostro paese e per l’Europa occidentale l’inizio di una nuova epoca: terminata la Seconda Guerra Mondiale, il Vecchio Continente smise di essere il centro politico del mondo, soprattutto a causa delle distruzioni umane e materiali che essa aveva prodotto. L’ordine sancito a Yalta spostava il baricentro a Washington e a Mosca e nella competizione bipolare che segnò la Guerra Fredda, gli Stati Uniti ritennero utile sostenere la ricostruzione di quella porzione di Europa finita nella loro sfera di influenza, anche e soprattutto in funzione anti-sovietica.
Col senno di poi, ovvero alla luce della caduta del Muro di Berlino, Geminiello Alvi parlò qualche anno fa di “Secolo Americano”, mettendo insieme l’ascesa degli USA determinatasi con la Grande Guerra, il progressivo ridimensionamento del ruolo della Gran Bretagna, la fine della centralità dell’Europa continentale dovuto alla Seconda Guerra Mondiale, l’esito della competizione USA-URSS, l’avvento della globalizzazione e del Nuovo Ordine Mondiale a guida statunitense.
Un “Secolo”, pur così variegato, segnato anche da alcune istituzioni internazionali che ne hanno plasmato la fisionomia: dall’ONU, figlio della Società delle Nazioni e della criminalizzazione della cosiddetta “guerra d’aggressione”, agli accordi di Bretton Woods (e successive modifiche), che resero il dollaro moneta di riserva mondiale, per finire con la codificazione, tramite il WTO ed altri trattati, della globalizzazione, esito finale della logica del libero commercio mondiale.
Di questo “Secolo”, in ogni caso, il secondo dopoguerra è stato il fulcro, ma l’impressione è che esso volga al termine, avendo esaurito il suo percorso.
Sull’obsolescenza degli organismi internazionali su cui si è retto, molto è stato scritto recentemente. Il conflitto in Ucraina (e la pandemia prima) ha semplicemente fatto esplodere le numerose contraddizioni latenti.
Il meccanismo innescato dall’attacco russo contro Kiev e dalle successive sanzioni contro Mosca sta generando una nuova cortina di ferro in Europa (già apparsa all’orizzonte nei mesi precedenti con il mancato riconoscimento della reciprocità vaccinale), diversa dalla precedente e, forse, anche più spessa.
L’ormai inevitabile ingresso delle neutrali Svezia e Finlandia nella NATO, e soprattutto l’adesione di quest’ultima, significano la fine irrevocabile dell’ordine di Yalta, venuto meno di fatto negli ultimi trent’anni, ma non sotto il profilo del diritto internazionale.
La vera questione è: quando e come finirà questa “terza guerra mondiale” (come la definì Papa Bergoglio) ormai sempre meno latente e dove passerà la nuova cortina di ferro. Le risposte le forniranno il conflitto nel Donbass e, con ogni probabilità, il destino di Taiwan.
Dalle ceneri del mondo unipolare e del “Secolo Americano” sta sorgendo un nuovo ordine multipolare. Ma a volerlo, con buona pace degli anti-americani sparsi nel pianeta, sembra essere proprio Washington, non più disposta a sostenere i molti oneri connessi alla leadership, decisa, tuttavia, a trattenere il continente europeo nella sua sfera. E a fargli pagare, come dimostrano i contraccolpi economici delle sanzioni, i costi del cambio di paradigma.
La costruzione del nuovo mondo ne avrà di ingenti, ma il nuovo Piano Marshall lo pagheremo noi.