In queste ore è emerso nel nostro Paese un altro caso di giovane di origine non italiana e di religione islamica che la famiglia voleva costringere a sposarsi. Lei si chiama Basma Afzal, ha 18 anni ed è pakistana come Saman Abbas, della quale non si sono ancora trovati i resti. La storia di Basma ricorda anche quella di altre due ragazze pakistane: Hina Salem e Sana Cheema, rapita, riportata a forza in Pakistan e lì uccisa; ricorda quella della sua coetanea di origine marocchina Sanaa Dafani. Vicende che hanno sconvolto l’Italia ed ancora ben vive nella memoria collettiva.
Come Saman, Basma aveva trovato l’amore online, ma avrebbe avuto molta più fortuna, riuscendo a raggiungerlo dove vive: all’estero (come stabiliscono i controlli del cellulare della ragazza, che comunque risulta spento). Si pensa fosse diretta in Francia.
La 18enne viveva con i familiari a Galliera Veneta e frequentava un istituto professionale a Castelfranco Veneto, entrambi in provincia di Padova. La Procura ha aperto un’inchiesta, coordinata dal pm Roberto Piccione, che ha chiesto di interrogare anche le compagne e le amiche di Basma.
La scuola era finita il 28 maggio e lei avrebbe dovuto affrontare gli esami. Il 31 maggio sarebbe stata vista in un bar di Castelfranco Veneto e sarebbe salita su un treno con pochi soldi. La denuncia è stata fatta dal cugino, che la sta cercando anche attraverso appelli sui social, e dalla madre, che non conosce l’italiano. Basma ha un fratello minore che frequenta le medie e uno maggiore, che attualmente si troverebbe in Pakistan con il padre. Anche lei recentemente era stata nel Paese d’origine con il genitore, ma non era stato un viaggio piacevole: le era stato prospettato appunto un matrimonio forzato.
Lo hanno detto chiaramente alcune amiche ai Carabinieri di Padova: “Basma se n’è andata. Non voleva sposarsi”. Ci sono stati segnalazioni di avvistamenti della studentessa, ma gli inquirenti le hanno ritenute poco attendibili.
Intanto c’è sempre lo shock per quello che è successo a Peschiera del Garda, in provincia di Verona, il 2 giugno scorso, con un rave party dedicato all’Africa pubblicizzato su TikTok sfociato in una serie di violenze e le successive molestie sessuali ed insulti a sfondo razziale ai danni di alcune adolescenti di ritorno da “Gardaland”.
Le indagini continuano, anche attraverso immagini e video condivisi sui social. Finora è emerso che sarebbero circa una decina le ragazzine molestate (come non ricordare le molestie avvenute la notte di San Silvestro in Piazza Duomo a Milano, riconducibili alla pratica arabo – islamica della “tahrrush gamea”, “molestia collettiva”, dello stesso genere di quella verificatasi a Colonia l’Ultimo dell’Anno nel 2016?). Naturalmente sono state rilanciate a livello politico considerazioni sul silenzio della sinistra e “femministe e femministi” in casi simili e c’è persino un articolo del Giornale a firma di Giannino della Frattina che titola “La sinistra ipocrita crocifigge gli alpini e assolve stupratori perché immigrati” (ma intanto continuano anche le indagini sulle numerosissime molestie di massa che sarebbero state perpetrate da alpini ubriachi alla 93° Adunata nazionale del celeberrimo corpo militare che si è tenuta a Rimini dal 5 all’8 maggio).
Di fronte ad uno scenario del genere dovrebbe allarmare ancora di più il fatto che a Cinisello Balsamo, in provincia di Milano, pochi giorni fa si sia tenuto una sorta “Miss Hijab” (in passato ce ne sono stati di simili in Arabia Saudita, per esempio). Non un concorso di bellezza (su cui peraltro oggi obietta più d’uno), ma un concorso per premiare colei che indossa più correttamente il cosiddetto velo islamico. La “kermesse” voluta dagli islamisti è stata commentata dall’ex parlamentare ed attivista per i diritti delle donne Souad Sbai, presidente delle Comunità delle Donne Marocchine in Italia (ACMID – DONNA), da tempo nel mirino degli integralisti islamici. Intervistata oggi, 7 giugno, da “Il Giornale”, Sbai ha criticato la kermesse, dicendo di chiedere “alle donne picchiate, segregate per mesi o peggio uccise perché volevano vivere all’occidentale”, se il “velo non è sinonimo di sottomissione”. Una delle ultime di cui l’attivista si è occupata, “è stata Salsabila Mouhib, 33enne marocchina costretta a indossare il velo integrale dal marito. Per cinque anni ha vietato a lei e ai suoi figli ogni contatto con il mondo esterno tenendola prigioniera in casa sua. Altro che libertà di scelta. La tolleranza non può essere a senso unico, ma va rivolta anche a chi sceglie di vivere senza imposizioni”.
Perciò secondo Sbai un concorso come quello sull’hijab “veicola un “messaggio sbagliato”. Alla richiesta di spiegazioni, la presidente di “ACMID – DONNA” ha risposto che prima di tutto dovremmo chiederci “perché queste cose ormai si vedano solo in qui. In Marocco i concorsi di bellezza si fanno in bikini. La verità è che ormai gli estremisti sono soprattutto in Europa”. “Vogliono far credere che c’è un’apertura verso le donne, che le donne così sono libere – ha sottolineato – ma in realtà è una taqiyya, una dissimulazione che viene fatta nell’interesse dell’islamismo”, per “fare proselitismo”.