Chi, e come, farà fuori Recep Tayyip Erdogan. Tra la diplomazia internazionale, le cancellerie europee e persino oltreoceano, l’argomento tiene banco all’interno di ristretti salotti. Quando le elezioni amministrative del 2019 consegnarono Ankara e Istanbul al Partito popolare repubblicano (e alleati), molti videro in questa disfatta l’inizio della fine del potere di Recep Tayyip Erdogan. Dopo 25 anni di dominio indiscusso, infatti, l’Akp del Sultano non è riuscito a riconfermare l’onda lunga. A distanza di oltre un anno da quegli eventi, però, Erdogan resta al potere in Turchia, ma la sua posizione forse inizia a scricchiolare. E non solo sul fronte interno.
La comunità internazionale, che da tempo soffre l’arroganza della Turchia, fino ad ora si è dimostrata fin troppo tollerante. Persino le ingerenze in Libia sono state apparentemente digerite. Del resto, Erdogan ha messo una seria ipoteca sui rapporti con l’Ue diventando l’ago della bilancia nella gestione dei migranti che premono per arrivare in Europa. E non lo ha fatto certo per spirito di solidarietà nei confronti dell’Europa. Si è fatto pagare profumatamente per i suoi servigi, ma lasciando sempre sul tavolo la pistola carica. La minaccia di riaprire i rubinetti dell’immigrazione, consentendo il transito verso i Paesi europei, è stato il suo lasciapassare per azioni spesso “spericolate”. Le velleità di conquista del Mediterraneo, con tutto quello che comporta dal punto di vista delle risorse energetiche e non solo, ha aperto un fronte di notevole disappunto da parte della comunità internazionale.
Le ingerenze in Libia, con lo sciagurato accordo sui confini marittimi stipulato con Fayez al Sarraj, ha fatto sobbalzare più di una poltrona all’interno delle cancellerie internazionali e non solo. Azioni diplomatiche sono state intraprese a vari livelli, ma niente e nessuno al momento sembra aver frenato il Sultano. La sensazione, però, confermata da alcune indiscrezioni, è che per Erdogan sia in cantiere una “risposta” al suo espansionismo che potrebbe portarlo verso il lento (e forse neanche tanto) inesorabile declino. Come? La sorte toccata a Gheddafi non è replicabile, per tante motivazioni. Ma le armi in mano alla comunità internazionale sono tante, e qualcuna di queste forse è già pronta a colpire. L’Onu, ad esempio, ha ricevuto il memorandum d’intesa sui confini marittimi del Mediterraneo firmato nel 2019 tra Turchia e Libia, nello specifico tra Erdogan e Sarraj, quest’ultimo a capo del governo di unità nazionale nato sotto l’egida proprio delle Nazioni Unite. Ma questo accordo al momento non è stato ancora registrato e forse non lo sarà mai, almeno a giudicare dalle numerose pressioni che arrivano da molti Paesi. A luglio scorso, Grecia, Cipro, Egitto, Arabia Saudita e Bahrein, hanno chiesto all’Onu di non procedere alla registrazione. E nei giorni scorsi anche diversi paesi europei si sono schierati contro questo accordo giudicandolo in sostanza illegittimo. Se dunque le Nazioni Unite non procederanno alla registrazione, sarà un duro colpo per il Sultano, che nel frattempo perderebbe l’appoggio di Sarraj, presidente dimissionario, che ha annunciato di voler lasciare l’incarico entro il 30 ottobre. Certo, Erdogan non avrà problemi a trovare un altro uomo di fiducia in Libia, ma il percorso potrebbe essere più accidentato del previsto considerato l’intervento internazionale per la stabilizzazione della Libia che, come sottolineato da più parti, deve avvenire senza ingerenze esterne.
Ma i problemi di Erdogan proprio in quest’area si moltiplicano. La Francia non ha mai gradito la presenza turca in Libia e da subito ha dimostrato ostilità al Sultano appoggiando l’antagonista di Sarraj, il generale Khalifa Haftar. E visto che Erdogan pensa di estendere l’impero Ottomano in ogni dove, ha anche avuto l’idea di arrivare a stringere accordi in Niger e Nigeria pestando i piedi sempre a Parigi, che certo non starà a guardare.
A tutto questo espansionismo estero di Erdogan, bisogna aggiungere i problemi che si trova in casa. Forse non servirà aver trasformato Santa Sofia in moschea per tenere a bada certi malumori. La Fratellanza musulmana di cui fa parte il presidente della Turchia ha gradito di certo la decisione e in generale l’islamizzazione del Paese portata avanti da anni.
Il mondo militare turco, poi, schiacciato da tempo dal potere del Sultano, ha provato a reagire nel 2016 con il tentato golpe. La questione, però, non è chiusa e pare che da quelle parti ci sia ancora un certo fermento. E se dovessero riprovare il colpo di Stato, forse questa volta troverebbero meno gente disposta a difendere il ruolo di Erdogan, fino ad ora garantito dalla protezione dei servizi segreti.
In alcuni ambienti dell’alta diplomazia gira una strana voce ultimamente: la comunità internazionale lo lascerà fare ancora un po’, per giustificare l’intervento internazionale a difesa della democrazia, e in ogni caso fino a quando non spunterà fuori il sostituto ideale, poi lo elimineranno politicamente.
La Turchia, però, fa parte della Nato quindi fare fuori Recep Tayyip Erdogan senza avere garanzie per il futuro non sarà facile. Le basi sul territorio turco sono tante e la posizione del Paese nell’area è strategica. Questo giustifica in parte la tolleranza della comunità internazionale nei confronti della Turchia. Ma ogni dittatore deve fare i conti, prima o poi, con il numero di nemici che nel tempo ha collezionato.