È il giorno delle elezioni presidenziali in Iran. Oggi si va alle urne per una votazione considerata dai critici del regime come non democratica, equa né tantomeno libera.
Con il voto della Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, si sono ufficialmente aperte le elezioni presidenziali in Iran. Sono circa 60 milioni gli elettori che potranno esprimere la loro preferenza.
È probabile che le elezioni, rigorosamente gestite dalle massime autorità della nazione, consegnino la presidenza a un giudice sanzionato da Washington per presunto coinvolgimento nelle esecuzioni di prigionieri politici: l’intransigente e ultraconservatore Ebrahim Raisi, capo dell’apparato giudiziario e protetto del leader supremo dell’Iran Khamenei, favorito per succedere al pragmatista uscente Hassan Rouhani.
“Con queste elezioni il regime cercherà di dimostrare che gode di legittimità. I dipendenti del governo saranno istruiti ad andare alle urne per mostrare la popolarità del regime, mentre le autorità potranno manipolare le statistiche per mostrare un’alta affluenza”, ha scritto sull’Opinion il politologo Majid Rafizadeh.
Khamenei mercoledì ha esortato gli iraniani a presentarsi e votare, ma si prevede che un numero record di persone boicotterà le votazioni a causa della rabbia per il peggioramento delle condizioni economiche in cui versa il paese e la frustrazione per il governo dalla linea dura.
Un altro potenziale deterrente per gli elettori è la squalifica di centinaia di aspiranti candidati, tra cui molti che sostengono maggiori libertà. Sono solo 3 i candidati, dopo il ritiro alla vigilia degli altri 4 ammessi dal Consiglio del guardiani sui quasi 600 iniziali aspiranti: oltre al favorito Ebrahim Raisi, in lizza anche l’ex comandante dei Pasdaran, Mohsen Rezai, dello stesso schieramento, e il governatore della Banca centrale, il moderato Abdolnaser Hemmati.
Per una popolazione prevalentemente giovane, che si irrita per le restrizioni politiche, la mancanza di scelta nelle urne significa un voto che non ha uno scopo.
Soraya, una studentessa dell’Università di Teheran, ha dichiarato ad Arab News: “Il governo sta dicendo alla gente di votare. Ma vedo il voto come un insulto. Non voteremo per mostrare al mondo che noi iraniani siamo frustrati da questo sistema clericale. Non siamo con un governo che abbatte un aereo passeggeri (l’Ukraine International Airlines Flight 752, abbattuto dall’IRGC nel gennaio 2020), mente ripetutamente e uccide e tortura i propri cittadini. Non siamo con un governo che ruba le risorse naturali della nazione e le spende per le sue milizie. Il vecchio gioco del moderato o dell’intransigente è finito. Sono tutti uguali”.
All’interno del mix iraniano di governanti clericali e funzionari eletti, Khamenei ha l’ultima parola su tutte le questioni statali, comprese le politiche nucleari ed estere. Ma il presidente eletto avrà il compito di affrontare un’economia martellata dalle sanzioni statunitensi.
Oltre il 50 per cento della popolazione iraniana di 85 milioni è sotto la soglia di povertà dal 2018, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha abbandonato un accordo nucleare del 2015 e ha reintrodotto le sanzioni relative al nucleare riducendo le entrate petrolifere di Teheran.
Consapevole della sua vulnerabilità, la leadership iraniana teme una ripresa delle proteste di strada come quelle infervoratesi a partire dal 2017, quando i manifestanti hanno iniziato a chiedere un cambiamento di regime.
Di Laila Maher