Islam, meno credenti e più agnostici. Aumenta nei paesi musulmani, almeno in quelli dove è possibile condurre sondaggi dedicati a un tema così delicato, il numero dei non credenti, in particolar modo tra i giovani.
A scriverlo la testata specializzata “Terrasanta” che riferisce di una serie di analisi demoscopiche condotte a dieci anni dalle primavere arabe, che videro le nuove generazioni protagoniste dell’ansia di cambiamento.
Uno dei più importanti istituti statistici della regione, l’Arab Barometer, ha condotto un’indagine multipla su un campione di 25 mila persone in dieci Paesi arabi, affrontando anche il problema dei non credenti, atei o persone che non si identificano più nell’Islam ufficiale, un argomento tabù da quelle parti.
Questi i risultati: nell’area che va dal Marocco all’Iraq – saltando i regni e gli emirati del Golfo dove non è possibile effettuare indagini statistiche di questo tipo – una media del 13 per cento della popolazione si dichiara non credente. Una cifra che schizza in alto, quando a parlare sono giovani dai 18 ai 29 anni.
Sottolinea Terrasanta che in Tunisia (dove la Rivoluzione dei gelsomini ha introdotto una certa libertà di pensiero ed espressione) sono addirittura quasi il 46 per cento a definirsi non credenti, mentre tra la popolazione più adulta, ovvero dai 30 anni in su, la percentuale si attesta sul 30 per cento.
Si tratta di cifre quasi triplicate rispetto al 2013. Una tendenza che si ripete anche altrove.
In Libia i giovani non credenti risultano essere il 35 per cento, in Algeria il 24,5, in Marocco il 22,4, in Egitto oltre il 18, in Libano quasi il 17, in Iraq l’11. La tendenza è in crescita ovunque anche tra la popolazione adulta, a stare ai dati registrati dalla rete di ricerca: in Libia il 25 per cento, in Algeria oltre il 15, in Marocco il 12, in Egitto il 10,5, in Libano il 14,4, in Iraq il 5,5.
Il caso iraniano
Particolarmente significativi i dati che riguardano l’Iran, paese non arabo dove da sempre sono forti le minoranze religiose ma dove la Repubblica è Islamica per definizione.
Nel 2020, un’indagine focalizzata sul rapporto tra popolazione e religione, condotta su un campione di 40 mila persone dal Gamaan (Istituto di analisi e di misurazione dei comportamenti iraniani, con sede a Utrecht nei Paesi Bassi) ha rilevato che solo il 32 per cento degli intervistati si identificano con la fede sciita.
Per l’esattezza il 9 per cento si dichiarano atei, l’8 zoroastriani, il 7 legati alla spiritualità sufi, il 6 agnostici, il 5 musulmani sunniti. Il 22 per cento non si riconosce in nessuna di queste definizioni, tra cui però non è citato il cristianesimo, formalmente una esigua minoranza nel Paese, ma – secondo fonti locali – una realtà in forte crescita.
“Assistiamo a un incremento della secolarizzazione e della diversificazione delle fedi”, spiega in alcune note uno dei due autori della ricerca sull’Iran, il professore Pooyan Tamimi Arab, docente di Studi religiosi all’Università di Utrecht. Tra le cause ci sono le enormi trasformazioni avvenute nella società iraniana negli ultimi decenni: “La scolarizzazione fino ai livelli universitari, l’urbanizzazione, la diffusione di internet”.
Il fattore più importante, secondo Tamimi Arab, è però “l’intreccio tra Stato e fede, tra politica e religione. Ciò ha provocato un progressivo allontanamento dall’Islam istituzionale, sebbene la stragrande maggioranza della popolazione creda ancora in Dio”.
Si tratta di un fenomeno che non è certo limitato alla Repubblica degli ayatollah e spiega – ad avviso dello studioso – la disaffezione di tanti verso la propria religione originaria anche nei Paesi arabi del sud del Mediterraneo e del Medio Oriente.