Sepolta dalle drammatiche notizie della crisi afgana, c’è anche l’importante notizia del ritiro delle forze Usa dall’Iraq. Dopo la guerra del 2003 e la guerriglia successiva, dopo il ritorno del 2014 per combattere contro l’Isis, ora gli americani vanno definitivamente a casa. Mentre restano gli alleati della Nato, dal 2022 con un comando italiano.
Lo invasero nel 2003 con140mila militari americani e oltre 30mila britannici, nel 2008 arrivarono a presidiarlo con un massimo di 159mila soldati statunitensi più altri 25mila alleati. Ed ora le truppe di Washington vengono ritirate quasi per intero. Non stiamo parlando dell’Afghanistan, ma dell’Iraq, da cui in questi giorni è in atto il ritiro delle forze da combattimento americane.
Notizia certo “soffocata” dal tragico epilogo della crisi afgana ma che riveste però un grande rilievo geopolitico, anche se si sviluppa lentamente in una nazione dove le truppe USA sono state presenti dal 2003 (l’invasione che portò alla caduta del regime di Saddam Hussein) fino al 2011 quando Barack Obama impose il ritiro per dare un segno di discontinuità rispetto al suo predecessore George W. Bush, nonostante governo e comandi militari iracheni chiedessero a Washington di mantenere una presenza militare. Obama non volle sentire ragioni, esattamente come oggi il suo ex vice Joe Biden si è dichiarato non pentito della decisione di abbandonare l’Afghanistan e i risultati sono stati i medesimi.
In Afghanistan i Talebani hanno preso il cuore della nazione con capitale e città principali, in una settimana, senza combattere, mentre in Iraq, meno di tre anni dopo il ritiro americano, l’esercito iracheno, paragonabile per addestramento e capacità a quello afgano, venne travolto dall’offensiva dello Stato Islamico che tra gennaio e agosto 2014 si prese quasi tutto il nord dello Stato arabo. Un’invasione fermata alle porte di Baghdad dai pasdaran iraniani, ma che indusse un’ampia coalizione internazionale a guida statunitense a tornare dal 2014 in Iraq, con piccole forze da combattimento e forze speciali e un poderoso apparato aereo, di addestramento e consulenza delle forze irachene e curde.
Sconfitto il Califfato, nel luglio scorso il presidente Joe Biden ha annunciato che la missione da combattimento in Iraq terminerà quest’anno. Non sarà un ritiro completo poiché resteranno a Baghdad poche centinaia di istruttori e consiglieri militari americani, ma è in atto una forte riduzione rispetto al tetto di forze voluto da Donald Trump, che aveva portato a 2.500 il numero di militari schierati in Iraq (come in Afghanistan). Un taglio del resto inevitabile dell’acuirsi delle tensioni con il governo e il parlamento iracheno dopo che il 3 gennaio 2020 il generale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane Qassem Soleimani venne ucciso all’aeroporto di Baghdad da missili statunitensi. Un omicidio mirato che ha scatenato in territorio iracheno una guerra tra truppe americane e milizie sciite filoiraniane combattuta a colpi di raid aerei americani e bombardamenti di razzi dei miliziani sulle basi della coalizione che ospitano anche truppe alleate.
In termini politici, il ritiro delle forze da combattimento americane alleggerisce anche la scomoda posizione del primo ministro iracheno, Mustafa al-Kadhimi, pressato dagli interessi contrapposti di Usa e Iran, impegnati in un confronto a tutto campo che ha visto nell’Iraq il suo principale campo di battaglia. Con l’annuncio del 26 luglio, il premier iracheno può rivendicare come un suo successo il ritiro americano senza imporre al suo debole esercito di rinunciare al supporto logistico e addestrativo statunitense. Il ritiro dall’Iraq risponde però anche a esigenze di consenso politico interno agli USA dopo che un recente sondaggio effettuato da AP-NORC ha rilevato che il 63% degli intervistati è convinto che non valesse la pena combattere la guerra in Iraq contro il 62% che esprime la stessa opinione per il conflitto afghano.
Paradossalmente, il ritiro statunitense sta favorendo nuovamente le milizie jihadiste dello Stato Islamico che stanno rialzando la testa con attentati e imboscate in tutta la regione sunnita a nord e ovest di Baghdad e soprattutto nella regione petrolifera di Kirkuk. A differenza dell’Afghanistan, dove il ritiro coinvolge i militari Usa e Nato, in Iraq l’Alleanza Atlantica resterà con l’impegno di curare la formazione delle truppe irachene nell’ambito della Nato Training Mission che dalla primavera 2022 sarà a comando italiano, come ha notificato il 28 luglio l’Alleanza Atlantica. “Soddisfazione per l’assegnazione ufficiale da parte della Nato del comando della Missione in Iraq all’Italia” è stata espressa il 28 luglio dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini che ha parlato di “una scelta che conferma il valore in ambito internazionale delle Forze Armate italiane”.
Roma ha mantenuto ottimi rapporti politici e militari con Baghdad e ha oggi l’opportunità di consolidare la sua influenza in quella regione guidando una missione NATO erede di quella Coalizione che ha addestrato oltre 250 mila militari e poliziotti iracheni e curdi e ha visto l’Italia schierare il secondo contingente per numero di militari dopo quello americano.