Libano – Dopo 396 giorni il Libano ha di nuovo un governo. Tuttavia il paese è ormai sprofondato in una crisi che non ha precedenti in tempo di pace, e l’accordo per la formazione di un esecutivo costruito intorno al primo ministro designato, Najib Mikati, non significa necessariamente la fine delle difficoltà per la popolazione libanese. Lo scetticismo è d’obbligo.
Colpito da un triplo trauma – il tracollo economico e sociale, l’impasse politica e strutturale e le conseguenze della terrificante esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto 2020 – il Libano ha compiuto una discesa negli inferi. I tre quarti della popolazione vivono ormai al di sotto della soglia di povertà. Ovunque mancano corrente elettrica e carburante, mentre trovare medicine è diventato un percorso a ostacoli. L’esodo di chi ha la possibilità di partire svuota il paese delle sue forze vitali.
Najib Mikati, miliardario libanese sunnita, è già stato due volte primo ministro. Davvero è lui la soluzione per uscire dalla crisi? Mikati dovrà convincere la gente di non essere il rappresentante dell’ennesimo tentativo di salvare un sistema ormai screditato. Ufficialmente i ministri non hanno affiliazione, ma la composizione del governo è il prodotto di un equilibrismo di cui il Libano è da sempre maestro.
La comunità internazionale (e la Francia in particolare, in occasione della visita di Emmanuel Macron a Beirut dell’anno scorso) aveva subordinato l’erogazione degli aiuti finanziari di cui il Libano ha estremamente bisogno alla formazione di un governo di esperti. L’obiettivo non è stato raggiunto, anche perché tutti i ministri hanno in realtà un’affiliazione politica, principalmente per evitare che una fazione possa controllare più di un terzo dei componenti del governo e dunque avere un diritto di veto.
La reazione più positiva è stata quella del presidente francese Emmanuel Macron
Questa malattia politico-confessionale libanese, bersaglio delle manifestazioni di massa dell’autunno 2019, resta dunque intatta, anche se è diventata un po’ più discreta. I sostenitori del presidente cristiano Michel Aoun, i sunniti e i drusi e infine gli sciiti approvati da Hezbollah e dal movimento Amal si dividono le poltrone in assenza della fazione guidata dall’ex primo ministro Saad Hariri, che ha gettato la spugna.
Il primo ministro dovrà annunciare il suo programma di riforme per sbloccare i miliardi di dollari di aiuti internazionali promessi dall’Fmi, dai paesi del Golfo e dai paesi amici del Libano. E non è detto che questa procedura vada a buon fine.
La reazione più positiva è stata quella del presidente francese Emmanuel Macron, che si è complimentato per quella che ha definito una “tappa indispensabile” pur ricordando le riforme necessarie per sbloccare gli aiuti. “Trattiamo con il Libano per quello che è”, spiegano oggi al palazzo dell’Eliseo, quasi per scusarsi dopo che Macron aveva manifestato l’ambizione (senza dubbio smisurata) di cambiare il paese.
Buona parte dei libanesi non crede a nulla di tutto ciò. Molti sono scoraggiati da ciò che è accaduto negli ultimi anni, con la palese impossibilità di far cambiare un sistema notoriamente paralizzato dalle tensioni religiose. I primi passi dei nuovi ministri non sono certo incoraggianti. Il ministro degli affari sociali Hector Hajjar ha chiesto ai libanesi di privarsi dei pannolini, “come in Cina”, scatenando un tornado di polemiche sui social network.
“Stiamo ridipingendo i muri anziché ricostruirli”, ha scritto di recente il romanziere libanese Dominique Eddé su Le Monde. Vedremo se questo stratagemma basterà ancora una volta.