Non è certo una novità che i giornalisti e le giornaliste possano rischiare o essere uccisi sul lavoro. Ricordiamo per esempio le “nostre” giovani Ilaria Alpi, che lavorava per Rai 3. E’ stata uccisa a non ancora 33 anni con il fotografo ed operatore di ripresa Miran Hrovatin a Mogadiscio quasi 28 anni fa, il 20 marzo 1994, senza aver ancora ottenuto giustizia, e Maria Grazia Cutuli (foto), inviata del “Corriere della Sera”, uccisa a 39 anni a Surobi in Afghanistan quasi 20 anni fa, il 19 novembre 2001.
Ancora possiamo menzionare Marie Colvin, giornalista americana del britannico “The Sunday Times”. Ricordata anche per la benda nera sull’occhio, dopo essere rimasta ferita da una granata lanciata dall’esercito dello Sri Lanka il 16 aprile 2001 contro le Tigri Tamil, è rimasta uccisa 56 anni in un’esplosione durante l’assedio di Homs, in Siria, il 22 febbraio 2012. Con lei ha perso la vita il fotoreporter francese Remèmi Ochilik.
Sulla storia di Marie è stato realizzato un film: “A Private War” (2018) del regista Matthew Haineman con la bellissima Rosamund Pike nei panni della protagonista. E’ l’adattamento cinematografico dell’articolo “Marie Colvin’s Private War” della scrittrice e giornalista americane Marie Brenner. E’ stato pubblicato su “Vanity Fair” all’indomani della morte della Colvin.
Sempre in Siria, nel settembre del 2015, l’Isis ha ucciso a Raqqa la giornalista curda Raqia Hassan, 30 anni. Era accusata di essere una spia dell’Esercito Siriano Libero, che pure criticava, così come criticava la Coalizione Internazionale. La conferma dell’assassinio della giovane, con altri quattro colleghi, è arrivata soltanto all’inizio di gennaio 2016.
Per quanto riguarda la situazione attuale, a destare particolare preoccupazione è l’Afghanistan tornato nelle mani dei talebani. Per esempio è riuscita a fuggire, in Qatar, la giornalista televisiva Beheshta Arghand, 24 anni. E’ stata la prima donna ad intervistare, sull’emittente per cui lavorava, “Tolo News”, un capo talebano che si era presentato senza preavviso il 17 agosto. Due giorni prima era caduta Kabul.
Prima di andarsene dal Paese, Beheshta aveva dichiarato: “I talebani non accettano le donne. Quando un gruppo di persone non ti accetta come essere umano, e ha in mente un’immagine di te, è tutto molto difficile.” E aveva raccontato che, “quando ho visto che erano venuti in redazione, sono rimasta scioccata e ho perso il controllo. Ho pensato che fossero venuti a chiedermi perché ero in studio”.
Lei è riuscita a salvarsi, ma quante no e sono rimaste in Afghanistan? Altre loro colleghe sono state già uccise diversi mesi fa.
A dicembre 2020 è toccato alla 26enne Malala (si vede che questo è un nome di donne coraggiose!) Mawaind. Insieme al suo autista ha perso la vita a Jalalabad mentre si stava recando al lavoro, ha raccontato il padre. Come l’altra figlia Fatima, e la moglie, uccisa cinque anni fa, aveva cercato di opporsi alla ripresa del potere da parte dei talebani.
Il 2 marzo, sempre a Jalalabad sono state uccise a colpi di pistola altre tre giornaliste, che lavoravano nella stessa emittente di Malala: Mursal Waheedi, 25 anni (23 secondo alcune fonti), e Sadia Sadat e Shahnaz Roafi, entrambe 20enni. Potremmo anche a ritroso, per altre giornaliste.
Alessandra Boga