C’è un clima di terrore in Etiopia: dopo un’avanzata di sei mesi, i ribelli della regione più settentrionale del Tigray (Tigrè), vale a dire il Fronte Popolare per la Liberazione del Tigray (TPLF) e l’Esercito di Liberazione degli Oromo (OLA), sono a meno di quattrocento km dalla capitale Addis Abeba. Il primo ministro Abiy Ahmed Ali, chiama la popolazione alle armi: “Tutti gli uomini validi e in possesso di un’arma”, ha detto, “per seppellire una volta per tutte i ribelli“. Parole paradossali, se si pensa che il premier solo tre anni fa era stato nominato perché considerato paladino della democrazia; due anni fa aveva ricevuto il Premio Nobel per la Pace per aver posto fine alla guerra con l’Eritrea (durato dal 1998 al 2000) e solo fino all’anno scorso l’Etiopia era considerata “Il Paese più stabile del Corno d’Africa” (“Il Post”).
Oggi il premier è responsabile di fatto di una sanguinosa guerra civile. Ora assiste anche al dissolvimento dell’esercito e sembra in balia degli eventi. Lo denuncia un articolo del quotidiano “La Stampa” intitolato “Etiopia: assalto ad Addis Abeba” a firma del giornalista Giordano Stabile.
Ricorda che esattamente un anno fa, il 4 novembre del 2020, Abiy Ahmed Ali aveva lanciato un’offensiva militare contro i ribelli che l’avevano contrastato fin dal primo momento. Si tratta di poche migliaia di miliziani in una regione di 6 milioni di abitanti su 110 milioni.
Nonostante le prime vittorie, ci sono stati subito problemi, anche perché l’esercito si scatenava contro civili inermi. Inoltre la richiesta d’aiuto all’attuale alleata Eritrea, che inviava i suoi soldati, faceva esplodere la rabbia della popolazione pure in altre regioni non coivolte nel conflitto.
Il premier ha tentato anche i metodi più disumani (tipo blocco degli aiuti umanitari) contro il “nemico”, ma niente da fare. Nella giornata di ieri è stato proclamato lo stato di emergenza (anche se i ribelli tigrini hanno già avvertito che non servirà a salvare il regime).
Stati Uniti, Onu ed Unione europea temono la crisi umanitaria. La guerra civile ha ridotto alla fame centinaia di migliaia di cittadini. Un alto funzionario dell’agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale (Usaid), ha detto all’Afp: “Possiamo solo supporre che qualsiasi marcia verso Addis Abeba potrebbe espandere sfollamento, bisogni e sofferenze per il popolo etiope – già provato – Certamente aumenterà il bisogno di assistenza umanitaria, complicando la possibilità di fornirla”.
Come riporta “Rai News”, oggi l’inviato speciale per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, si è recato in Etiopia. Lo aveva annunciato ieri un portavoce dipartimento di Stato americano. Feltman aveva l’obiettivo di convincere “tutti gli etiopi a raggiungere la pace attraverso il dialogo”.”Gli Stati Uniti – ha detto ancora il portavoce – sono sempre più preoccupati dall’estensione dei combattimenti e delle violenze fra gruppi diversi e stanno monitorando da vicino la situazione”.
La preoccupazione è condivisa dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che chiede un immidiato cessate il fuoco e di facilitare l’accesso agli aiuti umanitari per le tre regioni più in crisi: Tigray, Amhara ed Afar. Un dossier delle Nazioni Unite denuncia esecuzioni sommarie, torture, rapimenti, stupri ed altri tipi di violenze sessuali nei confronti di donne e uomini e saccheggi.
D’accordo con Guterres si è dimostrato il presidente del consiglio europeo Charles Michel, che in un tweet, oltre ad una immediata cessazione delle ostilità, ha chiesto l’impegno “in negoziati politici senza precondizioni”. “Siamo pronti a sostenere tali sforzi”, ha aggiunto.