Il Medio Oriente, mentre è in corso la Cop 26 a Glasgow, si prepara a ratificare un piano per una maggiore un collaborazione interna (anche con Israele) decennale per la lotta contro i cambiamenti climatici e la dipendenza dal petrolio. Il piano è stato lanciato nel 2019 dall’Eastern Mediterranean&Middle East Climate Change Initiative (Emme-Cci) del governo di Cipro e la ratifica avverrà entro l’autunno del 2022, spiega “Asia News”.
I problemi affrontati sono 13, come l’energia, l’agroforestazione, la catena alimentare, la salvaguardia dei mari, il turismo, l’istruzione e le migrazioni. Il Medio Oriente è spesso considerato “invivibile”, secondo certi parametri legati all’ambiente.
Jihad Alsawair, consulente del Ministero giordano per questa ambito, sottolinea la necessità di “agire in modo collettivo” e “deciso”, sulla base delle conoscenze scientifiche a disposizione. La marocchina Fatima Driuech, del Mediterranean Experts on Climate and Environmental Change (MedECC), lancia l’allarme sull’innalzamento del livello del mare; ma non solo: anche sul fatto che metà delle zone umide della regione siano scomparse.
Preoccupato è anche Gideon Behar, inviato speciale di Israele per il cambiamento climatico e la sostenibilità. Interpellato dal “The Times of Israel”, dice che “gli effetti sono così drammatici e gravi che solo attraverso la cooperazione possiamo sopravvivere e prosperare”. Il Medio Oriente “si sta riscaldando più velocemente della media mondiale. Soffre di desertificazione ed è la più povera d’acqua del pianeta”. Entro il 2050, prosegue Behar, “la quantità di acqua pro-capite sarà metà di quella odierna. Stiamo vedendo – conclude – fiumi prosciugarsi e persone in rivolta per carenza d’acqua”.
C’è anche il nodo che pare insolubile del petrolio. Venduto soprattutto dall’Arabia Saudita, dal Kuwait e dall’Iraq, il suo mercato si rivolge ora in particolare all’Asia; meno agli Stati Uniti, all’Europa e all’Africa.
Un po’ di dati? Il “Refinitiv Oil Research” fa sapere che l’Asia ha acquistato il 61,6 % di petrolio in più ad ottobre (mentre il 59,1% a settembre). Al contrario la quota di greggio per l’Occidente, è diminuita del 19% il mese scorso. E’ “la più bassa dell’anno – sottolinea “Asia News” – e in calo progressivo rispetto al 28% di febbraio. In calo pure le esportazioni verso l’Africa che a ottobre sono diminuite dell’8,4%.
Fra i Paesi produttori, in Iraq le esportazioni petrolifere a ottobre 2021 sono cresciute fino a toccare quota 3,12 milioni di barili al giorno; il mese precedente il dato era di 3,08 milioni di barili. Solo dai terminali di Bassora, nel sud, sono partiti il mese scorso 3,01 milioni di barili, mentre da Kirkuk sono usciti 98mila barili in direzione Turchia e 10mila verso la Giordania. A ottobre Baghdad ha incassato 7,68 miliardi di dollari, con un prezzo medio al barile di 79,3 dollari.
Infine l’Arabia Saudita: nel terzo trimestre Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera al mondo, ha registrato incassi per 30,4 miliardi di dollari, grazie anche all’aumento della domanda per il progressivo allentamento delle misure di contenimento del Covid-19 nel mondo. L’utile netto della compagnia è più che raddoppiato rispetto agli 11,8 miliardi dello scorso anno”. L’amministratore delegato di Aramco Amin Nasser ha definito “eccezionali” i risultati legati all’aumento “dell‘attività economica nei mercati chiave e di un rimbalzo della domanda di energia”. Riyadh oggi fa parte degli oltre 100 Paesi che cercano di ridurre le emissioni di anidride carbonica entro il 2060, ma insiste nella produzione di petrolio e gas, nonostante la si voglia convincere ad investire nelle energie rinnovabili. Lo si può capire, perché l’economia del regno saudita dipende da questo, sebbene il principe ereditario Mohammed bin Salman (MSs) miri a diversificarla col piano di sviluppo socio – economico “Vision 2030”.
Il sito dell’ambasciata saudita spiega che si tratta di un piano approvato dal Consiglio dei Ministri il 25 aprile del 2016. Prevede riforme strutturali, privatizzazioni e sviluppo delle piccole e medie imprese.