Turchia – Da anni una ventina di avvocati è in carcere: rilevate numerose irregolarità nel processo. “La nostra lotta non si arresta”.
In Turchia ci sono diciannove avvocati che da otto anni sono dietro le sbarre a causa del loro lavoro. Nel 2017, alcuni mesi dopo il fallito tentativo di rovesciare il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan, sull’ondata di arresti che hanno portato in prigione migliaia di persone, contro questi 20 legali è stato aperto un processo per reati che li vedono alla sbarra perché avrebbero avuto tra i loro clienti anche individui sospettati di attività terroristiche.
Un’accusa che, come ha denunciato tra gli altri anche l’Alto commissariato Onu per i diritti umani lo scorso giugno, verrebbe strumentalizzata da Ankara per imbavagliare i contestatori e gli oppositori del governo tra cui politici, giornalisti, intellettuali. Una volta scattata, fa sì che anche gli avvocati vengano perseguiti perché ritenuti “complici”. Così, per diciotto di loro è arrivata una condanna complessiva a 159 anni di carcere in primo grado. L’agenzia Dire ha raggiunto Ezgi Cakir mentre nel Paese si stanno registrando in queste ore nuove manifestazioni contro il governo. Cakir è la sola ad aver lasciato la Turchia prima che, nel 2017, scattassero le manette anche per lei, e che ora dedica il suo tempo per denunciare quello che sta accadendo ai suoi colleghi e, più in generale, nel suo Paese. “Al potere in Turchia c’è un regime fascista e autoritario” dice l’avvocata, convinta che il processo a carico dei colleghi sia “politico. Stanno usando prove fabbricate dalla polizia, testimoni pagati o costretti a dire cose contro di noi, mentre il giudice che in un primo processo ci aveva scagionato, in osservanza della legge, è stato desstituito e rimpiazzato con un altro noto per le sue decisioni che violano il codice di procedura penale”.
La tesi di Cakir, è che il lavoro di questi legali – che si definiscono “avvocati del popolo” – dia fastidio e pertanto il processo a loro carico sia “politico”: “il governo di Erdogan viola sistematicamente i diritti dei cittadini abusando delle leggi, interferendo nella giustizia e dichiarando ‘terrorista’ chi alza la voce contro queste ingiustizie. In quanto avvocati, noi difendiamo i diritti delle persone e questo dà fastidio”. Cakir ricorda che nel corso di una udienza, “il giudice ci disse che avrebbe messo fine al nostro lavoro. Il messaggio è chiaro: chi va contro il regime, deve aspettarsi questo trattamento”.
Tutti gli avvocati incarcerati appartengono sia all’ufficio legale ‘Hbb’ che alla Progressive Lawyers Association (Chd), l’Associazione degli avvocati progressisti, due realtà conosciute in tutta la Turchia per fornire assistenza “al popolo” perché specializzati nella difesa dei lavoratori, delle donne che intendono divorziare o vittime di violenza, oppure di chi contesta sfratti o espropri. L’Associazione Chd in particolare negli ultimi anni è stata chiusa diverse volte dalle autorità poiché ritenuta un’organizzazione sovversiva, ma ogni volta è tornata operativa.
Il primo arresto per questo gruppo di avvocati avvenne nel 2013, ma nel 2017 il giudice fece decadere le accuse per mancanza di prove. Dopo circa 8 ore, la polizia arrestò nuovamente tutto il gruppo. L’ultima udienza per due di loro si è tenuta il 17 novembre scorso e si è conclusa con la decisione della Corte di confermare la detenzione cautelare, e riaggiornarsi al 5 gennaio 2022. Si tratta di Selcuk Kozagacli, il presidente del Chd, su cui già pesa una pena di 18 anni, e di Barkim Timtik. Sua sorella Ebru Timtik era a sua volta tra gli avvocati incarcerati e per denunciare l’illegalità del procedimento, avviò uno sciopero della fame che dopo 238 giorni le è costato la vita. Il suo caso è citato anche nel report di giugno dell’Alto commissariato Onu per id iritti umani.
“Questo processo è illegale per tante ragioni” continua Ezgi Cakir. “Per prima cosa, Kozagacli, Timtik e gli altri sono in detenzione cautelare da quasi 5 anni ormai, sebbene la legge non lo consenta. Secondo, c’è la questione delle prove”. L’Avvocata riferisce che in tribunale, l’accusa ha portato dei documenti digitali, file trovati all’interno di hard disk, a loro volta rinvenuti dagli inquirenti durante le perquisizioni nelle abitazioni di alcune persone sospettate di appartenenza a gruppi terroristici. “Ci è stato detto che in quei documenti, i presunti attentatori farebbero riferimento a noi con dei ‘soprannomi’. Il problema- dice Cakir- è che il giudice non ha permesso alla difesa di visionare quel materiale, mentre in possesso dell’accusa al momento ci sono solo le copie dei file. Noi chiediamo che il giudice nomini un perito informatico affinchè esamini prima di tutto i file originali, e poi ne confermi la natura”.
Gli inquirenti, a sostegno dell’accusa, hanno portato anche dei testimoni: “Primo, non tutti i nomi dei teste sono riportati nei verbali– riferisce Cakir- secondo, non è stato possibile ascoltarli in aula. Il giudice ha preso per buone delle registrazioni audio. Ma così i nostri avvocati non hanno potuto interrogarli a loro volta”.
Per l’avvocata, il fatto più allarmante è assistere a una pratica ormai consolidata: sempre più spesso la polizia porterebbe in aula “persone con gravi problemi psichici, economici o con la fedina penale sporca. Questi individui- continua la legale- vengono costretti a testimoniare in processi nei quali non sono affatto coinvolti“. Ma per convincerli, la polizia userebbe “metodi coercitivi oppure promesse di compensi economici o sconti di pena. In quanto avvocati- riferisce ancora- ci è capitato spesso che i nostri clienti ci raccontassero di essere stati ricattati dagli agenti. A volte- dice- minacciano di rovinare la reputazione della loro famiglia, arrivando a minacciare di abusi sessuali mogli o sorelle se la persona non testimonierà contro questo o quell’imputato”. Cakir aggiunge che ci sarebbero persino dei testimoni che, per via del gran numero di processi a cui hanno testimoniato, ormai sarebbero diventati “delle star”.
Ecco perché Cakir, dal suo studio legale all’estero, non smette di occuparsi dei colleghi e del suo paese: “La nostra lotta non si arresta. Collaboriamo con tante organizzazioni in Europa e molti avvocati stranieri hanno presentato dei rapporti in cui denunciano questo genere di irregolarità. D’altronde i confini non contano: attaccare un avvocato equivale ad attaccare tutta la categoria. Se si lede il diritto alla difesa dei cittadini turchi, equivale a ledere lo stesso diritto per tutte le altre persone. Questa solidarietà- conclude l’avvocata- ci spinge a continuare a chiedere un processo equo per i miei colleghi“.