Turchia: prezzi alle stelle tassi giù e lira a picco

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Turchia – La Erdoganomics fa acqua: il presidente insiste nell’imporre alla banca centrale di tagliare i saggi per favorire gli investimenti esteri ma così spinge nel baratro la moneta mentre i salari vengono distrutti dall’inflazione al 40% e dal caro-bollette.

Sulla strada che da Karakoy porta all’elegante Besiktas, Fehrat mima le sequenze di uno scacco matto. “Il prezzo della benzina è quasi raddoppiato rispetto a un anno fa e le tariffe sono aumentate. Con il taxi ho meno clienti. In famiglia cerchiamo di usare di più i mezzi pubblici ma anche il prezzo dell’autobus è aumentato. Guadagno meno, spendo di più”, dice bloccato nel traffico della frenetica Istanbul. Come Fehrat, migliaia di famiglie turche fanno i conti da mesi con l’inflazione rampante: l’istituto turco di statistica, nell’ultima rilevazione diffusa il 3 gennaio, l’ha fissata al 36,1% nel 2021, il livello più alto negli ultimi 19 anni, anche se numerosi analisti indipendenti sostengono che quella reale sia oltre il 40%, con il rischio che possa toccare il record del 50% nel 2022. Con la moneta debole, i salari perdono potere d’acquisto, i prezzi crescono, e a pagare i conti sono i cittadini. A cominciare dalla bolletta dell’energia. La Turchia dipende fortemente dalle forniture estere, è uno dei principali importatori di gas in Europa e un grande importatore di petrolio. La compagnia petrolifera statale Botas ha dichiarato il 2 gennaio che i prezzi del gas naturale aumenteranno del 25% per le famiglie e del 50% per l’industria. Secondo l’Autorità di regolamentazione del mercato dell’energia turca, i costi dell’elettricità cresceranno del 50% per le famiglie nel 2022 e del 125% per le imprese, con conseguenze a catena su quasi tutti i prodotti sul mercato.

Il vicolo cieco di Ankara

L’aumento globale dei prezzi del gas e del petrolio spiega solo in parte il vicolo cieco in cui si è cacciata Ankara: a pesare sui conti pubblici e delle famiglie è soprattutto il crollo della lira, che in un anno ha perso più del 45% del suo valore, stritolando l’economia reale di quella che fino a poco tempo fa era considerata la principessa della zona euroasiatica, con tassi di crescita che ancora nel terzo trimestre dello scorso anno erano intorno al 7%. La miccia che ha generato l’incendio è la politica monetaria eterodossa seguita dal presidente Erdogan, che ha imposto alla Banca centrale turca di tagliare ripetutamente i tassi – 500 punti base in quattro tagli da settembre a dicembre – muovendosi in direzione contraria a quanto stanno facendo o si preparano a fare le banche centrali nel mondo per contenere l’inflazione. Per il presidente turco, è una questione di “indipendenza nazionale”. L’ha ribadito in tutte le sue recenti uscite pubbliche: le oscillazioni sui tassi di cambio, sostiene, sono frutto della speculazione internazionale e i tassi di interesse sono lo strumento che forze e agenti stranieri usano per piegare i Paesi emergenti, ridurli in povertà. La strada dunque è mantenere i tassi bassi. La crescita turca, del resto, si è retta negli ultimi dieci anni sul debito che banche e imprese facevano – spesso in valuta estera – ottenendo denaro a basso costo dalla banca centrale per sostenere gli investimenti. Alzare i tassi significherebbe ora avere meno prestiti, meno soldi sul mercato e dunque meno investimenti. La strategia di Erdogan è proseguire su questa strada anche di fronte a un’inflazione che sta trascinando verso il basso salari e risparmi: sfruttare il basso costo del denaro per attirare gli investimenti, e così – dice – creare “occupazione e crescita”.

L’Export

L’altra gamba di questo piano economico contestato da economisti e tecnici è l’export. La svalutazione della lira dovrebbe spingere le esportazioni contribuendo così a colmare il deficit di bilancio. Le esportazioni turche sono salite al “massimo storico nel 2021 con un aumento del 32,9%, raggiungendo un record di 225 miliardi di dollari”, ha annunciato trionfante il 3 gennaio il presidente turco subito dopo la diffusione dei dati sull’inflazione. Il punto è che le conseguenze “di questa teoria economica però sono nefaste” per la popolazione, dice Atilla Yessilada, economista di Istanbul. “I dati sulla povertà in crescita lo certificano. Inoltre, non si può pensare di trasformare la Turchia in un Paese esportatore contando sul basso costo del denaro e del lavoro”. Erdogan ha provato a mitigare l’impatto della sua politica monetaria introducendo uno strumento che dovrebbe proteggere i depositi in valuta nazionale con la garanzia per i cittadini di poter prelevare i loro soldi allo stesso valore del giorno in cui hanno aperto il conto, anche se nel frattempo la moneta ha perso valore. A pagare la differenza agli investitori sarà il Tesoro. “Se la domanda di questo strumento da parte dei turchi sarà bassa non servirà all’effetto che vuole ottenere il presidente, se sarà alta aumenterà la pressione sul Tesoro e sulla Banca centrale, che dovranno assumersi il rischio di garanzia dei depositi, è una lose-lose situation”, ci dice Ibrahim Canakci, ex sottosegretario al Tesoro, già funzionario del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale e tra i fondatori del partito Deva, nato da una scissione interna all’Akp di Erdogan. Finora i conti “protetti dal tasso di cambio” non sembrano aver scaldato i risparmiatori turchi, in compenso a dicembre la banca centrale ha dovuto vendere 7,28 miliardi di dollari per immettere liquidità nel mercato nel tentativo di arginare la svalutazione della lira. Che comunque non ha recuperato. “Il mio padrone di casa ci ha appena chiesto un aumento del doppio dell’affitto”, racconta Cem, un freelance turco che ha 44 anni e un bambino di 8. “Mia moglie lavora in una casa editrice, fino a poco tempo fa eravamo considerati classe media, ora stiamo scivolando verso il basso, i nostri stipendi valgono la metà”.

Il presidente cerca strade per sostenere la sua strategia, e così la crisi valutaria cambia in parte anche la geografia delle alleanze internazionali della Turchia. In soccorso di Erdogan è arrivato il principe erede al trono di Abu Dhabi, Mohammed Bin Zayed al Nayan, storico avversario di Ankara che per anni ha accusato di essere la grande protettrice del movimento islamista dei Fratelli Musulmani. A novembre Bin Zayed è volato in Turchia per rilanciare i rapporti tra i due Paesi. Pochi giorni dopo, il fondo di investimento statale di Abu Dhabi, Adq, ha annunciato circa 10 miliardi di dollari di investimentu. Al Financial Times Mohammed Hassan al-Suwaidi, amministratore delegato di Adq, l’ha spiegata così: “La debolezza della lira è un’opportunità”. Su cui Erdogan punta tutto, anche la sua permanenza alla guida della Turchia.

Repubblica

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