Sudan-Darfur – Intanto che la guerra in Ucraina assorbe le attenzioni mondiali, in Africa si accentua la possibilità che “l’islamismo di Stato” annichilisca i residui di laicità. In Sudan, sei mesi fa, il generale Abdel Fattah Al-Bourhaneaveva celebrato, con un tradizionale e normale colpo di Stato, l’avvicendamento governativo. Il golpe fu condannato dall’Occidente e anche da parte del mondo arabo, non dalla Russia, che tramite Dmitry Polyanskiy, allora rappresentante del Cremlino all’Onu, dichiarò: “Spetta ai sudanesi stabilire se si tratta di un colpo di Stato o meno”. Messaggio inequivocabile, che conferma che un colpo di Stato può essere interpretato soggettivamene.
Ora, i partiti islamisti hanno iniziato a muovere le loro pedine per ottenere il potere. Le condizioni sociali che usualmente vengono sfruttate per questo tipo di operazioni politiche, dove la religione diventa politica, si basano sullo sfruttamento dei disagi della popolazione. Infatti, in Sudan l’economia è drammaticamente sull’orlo del baratro, la massa protesta contro il Governo militare golpista, tuttavia la speranza di poter avere prossime elezioni, che chiaramente rappresentano una effimera realtà e una inutile droga sociale, contribuiscono a indurre la società ad accettare qualsiasi alternativa che possa portare a una speranza di cambiamento. Così il Governo, il 18 aprile, ha aperto ufficialmente alla possibilità di formare una coalizione governativa con la formazione di una nuova alleanza con la Grande Corrente Islamica, segnando il loro ufficiale ritorno sulla scena politica. Che questa intesa politica fosse molto sentita dalle associazioni islamiste lo dimostra l’incontro avvenuto alcuni giorni fa in un parco di Khartoum, quasi al termine del Ramadan, e in ricordo della battaglia di Badrdell’ottobre del 623, rammentata come la prima vittoria dei sostenitori di Maometto. All’appuntamento si sono riuniti membri di organizzazioni islamiste, abbigliati con la tradizionale Jalabiya bianca, tra i quali molti sostenitori del deposto dittatore Omar Al-Bashir, esautorato nel 2019, dopo trenta anni di dittatura. L’obiettivo della nascente coalizione “politica” è quello, mai nascosto, di “rianimare il Paese nella religione”, come confermato da una delle figure più autorevoli del movimento islamista sudanese, Amin Hassan Omar, notoriamente vicino ai Fratelli musulmani che sostengono questa operazione e i gruppi islamisti con ogni mezzo. L’operazione prevede di coordinare tutte le associazioni islamiste sudanesi in previsione delle elezioni promesse dal Governo golpista per il 2024. Ma dietro questa rischiosa mossa del capo del Governo, il generale Bourhane, si cela la grande debolezza politica del golpe. Ricordo che un golpe è un’azione di forza per rovesciare un Governo esistente, a volte anche elettivo, che si basa non su un consenso popolare ma sulla volontà di pochi. Questa struttura organizzativa, così, resta anche dopo un periodo di Governo relativamente lungo. Ora, il generale Abdel Fattah Al-Bourhane promette elezioni, ma senza avere un consenso ed essendo un golpista non ha nemmeno un profilo atto a essere riconosciuto dalle Comunità internazionali, le quali ufficialmente sostengono finanziariamente molti Stati africani. Da qui la necessità di Bourhane di cercare una base politica certa per non perdere il potere, in un momento in cui la maggior parte dei partiti politici lo disdegnano. Quindi, ecco la necessità di un sostegno politico attivo per formare un Governo, non militare, anche con lo scopo di sbloccare gli aiuti internazionali. Quello che ha organizzato Bourhane per ottenere il supporto degli islamisti è banale e si è concretizzato all’indomani dell’8 aprile, quando tredici dirigenti del National Congress Party (Ncp), partito del precedente regime, sono stati assolti dai tribunali dopo essere stati accusati di finanziare il terrorismo, di avere attentato alla Costituzione e di tentato omicidio dell’ex primo ministro del Governo di transizione, Abdallah Hamdok, avvenuto nel marzo 2020. Quindi sono stati liberati gli islamisti in cambio di sostegno politico. Ricordo che dal National Congress Party si scisse il Nif, Fronte nazionale islamico, che a sua volta si divise in due partiti, il Movimento islamico e l’esercito comandato da Omar al-Bashir. Ai margini di questa avventurosa ricerca di nuove alleanze per mantenere tutto stabile, nella sventurata regione del Darfur, in un’area situata a circa 80 chilometri a est di Geneina, capoluogo della regione, da giovedì 21 a domenica 24 aprile, per questioni legate a complesse faide, circa mille miliziani armati hanno attaccato il villaggio di Kreinik, governato dallo sceicco Mohammed Kari e un villaggio vicino. In questa aggressione sono stati uccisi oltre duecento civili ed è stata esercitata ogni tipo di violenza sulla popolazione. Omicidi e brutalità condannati dall’Onu, che mercoledì scorso ha chiesto un’indagine “rapida” e “incondizionata”. Queste violenze rappresentano un rinvigorimento dell’escalation del conflitto in Darfur, che ricordo era scoppiato nel 2003 tra le forze del regime dell’ex presidente Omar Al-Bashir e le comunità locali ribelli, tra cui i Massalit, che si considerano una etnia discriminata. Tale conflitto, parcellizzato, ha prodotto almeno 310mila morti e oltre tre milioni di profughi in vent’anni, in un quadro di pulizia etnica e stupri di massa. Anche questi sono crimini contro l’umanità, ma pare di secondaria importanza e soprattutto non influenti, né per gli obiettivi dei golpisti, né per le “sensibilità internazionali”.