Iran: la protesta per Mahsa spinge l’astensione. Autorità: “Voto anche alle donne senza velo” – I fattori interni ed esterni che pesano sul voto nel Paese con un’alta percentuale di giovani. Brucia ancora la repressione sulle proteste per Mahsa e la crisi economica. I sondaggi danno il 77% di astensionisti, 8% di indecisi e un 15% di votanti.
Conto alla rovescia per oltre 61 milioni di iraniani che venerdì 1 marzo saranno chiamati alle urne per l’elezione dei 290 membri del Parlamento (majles) e degli 88 membri dell’Assemblea degli esperti, un organo che ha il compito di nominare o eventualmente revocare il leader supremo del paese, attualmente il Grande ayatollah Ali Khamanei, al potere dal 1989.
Secondo molti osservatori, si tratta di una sfida importante per la legittimità del governo, poiché si prevede un’affluenza molto bassa, questo a causa di molteplici fattori interni ed esterni fra cui oltre al veto imposto alla candidatura di un gran numero di esponenti e attivisti c’è il bruciante ricordo della dura repressione dell’anno scorso sul movimento di protesta anti-governativa “Donna, vita e libertà” nato dopo la morte di Mahsa Amini.
Gli ultimi sondaggi, parlano di un 77% di elettori che diserterà le urne, mentre l’8% non ha ancora deciso. Solo il 15% voterà sicuramente, e per questo, di fatto, le elezioni potrebbero trasformarsi in una sorta di referendum sulla Repubblica islamica.
I fattori interni rilevanti ad avallare l’astensionismo sono l’attuale crisi economica, con l’inflazione galoppante vicina al 50%, il rial in continuo deprezzamento e lo spettro di un aumento dei costi del carburante. Milioni di iraniani vivono sotto la soglia di povertà e la disoccupazione giovanile rimane superiore al 15%, con una popolazione a maggioranza sotto i 35 anni di età con un’età media di 33 anni. Gli iraniani rimproverano al presidente ultra-conservatore Ebrahim Raisi di aver fallito gli obiettivi economici con il Pil pro capite crollato del 28% rispetto a gennaio 2023 e attualmente a 4,74 dollari per abitante.
Pesa ancora molto, la dura repressione sui manifestanti durante la rivolta dell’anno scorso innescata dalla morte di Mahsa Amini, la studentessa curdo-iraniana morta a Teheran mentre era in custodia della polizia della morale per aver indossato male, l’hijab, il velo obbligatorio islamico. In un anno e mezzo di dura repressione ordinata dal clero al potere, furono quasi 600 le vittime e oltre 18mila gli arresti. A farne le spese giovani e giovanissimi adolescenti, alcuni dei quali giovanissime donne. In quei lunghi mesi, grazie a notizie che passavano soprattutto sui social media, la teocrazia mostrò il suo volto più spietato che con processi sommari mandò a morte 9 giovani manifestanti, impiccandone alcuni anche in pubblico.
Molti di loro non dimenticano quei giorni di protesta per Jina (nome in curdo) Amini. E quindi non andranno a votare in segno di solidarietà con coloro che “sono stati colpiti in un occhio e diventati ciechi, con i prigionieri politici e tutti coloro che hanno perso il posto all’università o il lavoro”. Chi è stato colpito agli occhi si è dovuto far curare fuori scappando all’estero attraverso la Turchia. Altri furono colpiti ai genitali o imprigionati semplicemente perché hanno appoggiato la protesta cominciata con le donne.
Per questo i candidati afferenti all’ala conservatrice di Raisi promettono di garantire il voto anche alle donne senza velo che oramai sempre più numerose mostrano i loro capelli nelle principali città, anche a Teheran.
Ma “boicottare queste elezioni è un dovere morale per tutti gli iraniani che amano la libertà e vogliono la giustizia”, ha detto dal carcere di Evin dove è rinchiusa l’attivista Narges Mohammedi, premio Nobel per la Pace. Il movimento invita le iraniane all’astensionismo “per non divenire complici dei crimini del regime”. L’astensione è una delle poche armi rimaste nelle mani delle donne iraniane e il fronte che rifiuta di votare e che chiede ancora riforme sociali strutturali sui diritti umani.
Poi ci sono fattori esterni: le critiche dell’opinione pubblica all’estremismo del governo nella sua politica estera. “Il sostegno del governo ai gruppi miliziani in Palestina, Siria, Libano, Iraq e Yemen e la sua inimicizia con l’Occidente hanno imposto un pesante costo al Paese, ed è il popolo iraniano che lo deve pagare. I nostri soldi vanno a queste milizie”, dicono gli iraniani. Prima del 7 ottobre e dell’inizio della guerra tra Hamas e Israele, la Repubblica Islamica ha incrementato il proprio export nel settore della Difesa vendendo droni e missili alla Russia nella guerra in Ucraina. E per questo la comunità internazionale ha inasprito le sanzioni a carico del Paese finito già nel mirino accusato di arricchire l‘uranio per fini belligeranti.
Non manca comunque chi, invece, tra loro appoggia la teoria del governo ovvero che dietro alle proteste quella per Mahsa così come tutte le altre che si sono avvicendate negli anni, vi sia la mano dei nemici storici dalla Repubblica islamica dell’Iran: gli Stati Uniti, Israele, il Regno Unito e in generale tutto l’Occidente. È il sentimento dei pochi che si recheranno alle urne, per questo gli analisti si aspettano che le elezioni saranno dominate da candidati conservatori e ultraconservatori, simili a coloro che formano l’attuale parlamento.