Il lavoro perde le donne, di Elena Pompei e Giuseppe Grossi
Oggi tutti conosciamo i numeri della pandemia, dei contagi e di quello che si sta facendo per la prevenzione. Ma c’è un universo sommerso di vittime, numeri silenziosi di questa storia di cui ancora non si vede il lieto fine: il mondo dei minori e delle donne.
Secondo i dati dell’ISTAT a dicembre 2020 gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità e di questi 99.000 sono donne. È la “Shecession”, la recessione tutta al femminile più grave dal dopoguerra ad oggi, per distinguerla da “mancession” posteriore alla crisi del 2008, quando calò drasticamente l’occupazione di settori lavorativi, quali affari, finanza e investimenti, tradizionalmente occupati dagli uomini. Molte donne sono rimaste inattive o disoccupate o ancora peggio, schiacciate dal tranello dello smart working, che le ha intrappolate in casa, dandogli un doppio onere: lavorare mentre ci si prende cura dei figli. Quanto di più impossibile si possa chiedere ad un essere umano. In realtà, sia in Italia che in un contesto europeo, dove il gap salariale tra uomo e donna si attesta intorno al 20%, la pandemia non ha fatto altro che metter in luce un problema già esistente: le donne, nelle aziende, ricoprono ruoli e dispongono di contratti (part time) che per loro natura, sono sacrificabili per il datore di lavoro. È necessario rivalutare la figura della donna nel contesto lavorativo dandogli la sicurezza di contratti che non conoscano un continuo ed estenuante rinnovo o un’interruzione per la maternità che non rappresenti un atroce punto interrogativo. Una questione fondamentale è rappresentata dagli asili nido pubblici. Perché se il nido privato ha un costo proibitivo per una famiglia in questo preciso momento, molte mamme scelgono di rimanere a casa, per non gravare ulteriormente sul bilancio familiare. Questo, ovviamente, a discapito del posto di lavoro. Ma c’è anche il tema della riduzione dei contributi previdenziali per le lavoratrici autonome, come anche il riconoscimento della malattia, della maternità e del congedo di paternità, prolungandone il periodo (circa una settimana ad oggi). Tutto questo necessita di una visione globale e un approccio olistico che siano a lungo termine, non solo a livello nazionale ma anche europeo, prendendo a modello Paesi che in questo ambito sono di esempio come la Danimarca.
In questa direzione va sicuramente la Strategia per la parità di genere 2020-2025 dell’Unione europea, che fissa obiettivi chiari per gli Stati membri in tema di violenze sulle donne, divario retributivo e diritti delle donne. Tuttavia, è fondamentale che il cammino tracciato non si fermi ai soli proclami: servono azioni concrete e un meccanismo che renda gli obiettivi specifici e vincolanti.