Qualche settimana fa è avvenuto un nuovo gravissimo fatto contro le donne in Afghanistan: tre giovani sono state uccise per aver svolto la loro professione: tre giovani giornaliste e doppiatrici che lavoravano per una TV filo-governativa, Enikass RTV. Questa sarebbe stata la loro colpa, secondo l’Isis, che ha rivendicato gli attentati, definendo il governo di Kabul “apostata”. I talebani, invece, hanno declinato ogni responsabilità, ma non dubitiamo ovviamente che siano d’accordo.
Tutto è accaduto verso le 16 di martedì 2 marzo. A morire, freddate con armi da fuoco, sono state Mursal Waheedi, Saadia Sadat e Shahanaz Rauf, tra i 17 e i 20 anni. Una loro collega è gravissima in ospedale. Feriti anche due passanti.
Negli stessi giorni, Zalmay Latifi, il direttore dell’emittente in cui lavoravano le tre giovani, ha rivelato che i suoi dipendenti erano stati minacciati da terroristi intenzionati a riportare la guerra civile in Afghanistan.
Il Servizio europeo dell’Azione Esterna (SAE), ha dichiarato di aspettarsi “La violenza in Afghanistan deve finire e l’Unione europea si aspetta indagini trasparenti e approfondite su tutti gli attacchi e gli omicidi”. Lo stesso organismo ha citato il caso della giornalista e conduttrice Malalai Maiwand (come “Malalai of Maiwand”, l’eroina che combatte contro gli inglesi colonizzatori in una famosa battaglia avvenuta il 27 luglio 1880), uccisa il 10 dicembre 2020 mentre stava dirigendo a Jalalabad, e fatto sapere che “una preoccupante tendenza di attacchi e uccisioni sistematici e mirati di giornalisti, difensori dei diritti umani, rappresentanti della società civile e funzionari pubblici, che sono costati la vita a 1.200 civili nel 2020, un aumento del 45 per cento rispetto al 2019”. Per quanto riguarda coloro che lavorano nel mondo dell’informazione, donne in particolare, l’Onu ha reso noto che 14 ne sono state uccise negli ultimi sei mesi. I principali responsabili di certe azioni sono sicuramente i talebani, che vogliono riprendersi il potere in vista dell’ormai prossimo ritiro americano.
Mursal, Saadia e Shahanaz sono state uccise proprio quando “il mondo” si preparava a celebrare la Giornata Internazionale della Donna, quell’8 marzo che qualcuno si ostina a considerare una “Festa”.
Lo stesso giorno è giunta notizia che, dopo che un gruppo di donne turche è sceso in piazza per una marcia femminista ad Istanbul contro la violenza di genere e i numerosi femminicidi (se ne contano tre al giorno), 13 di loro sono state arrestate ed indagate per slogan in cui chiamavano in causa direttamente il presidente Recep Tayyip Erdogan. Slogan tutt’altro che duri, come “Chi non salta è Tayyip” e “Corri Erdogan, corri, stanno arrivando le donne”. Tanto però è bastato, per spaventare il Sultano.
Ora fa un ovvio scalpore il fatto che la Turchia abbia deciso di ritirarsi dalla discussa Convenzione di Istanbul sulla Violenza sulle Donne, perché secondo Erdogan e i suoi sodali minerebbe l’istituzione della famiglia incoraggiando il divorzio e favorendo le organizzazioni LGBT!
Mesi fa persino Sumeyye Erdogan, la figlia di Recep (velata come la madre Emine e la sorella maggiore Esra) che si espone di più mediaticamente ed è ai vertici di “Kadem”, associazione di donne musulmane, si era detta favorevole al mantenimento della Convenzione (invece per esempio suo fratello Bilal era contrario). Tuttavia dopo la decisione del padre ha dichiarato: “La Convenzione di Istanbul è stata un’importante iniziativa per combattere la violenza contro le donne. Al punto in cui siamo arrivati, ha ormai perso la sua funzione originaria e si è trasformata in una ragione di tensioni sociali. Consideriamo la decisione del ritiro come una conseguenza di queste tensioni”, ha aggiunto, alla faccia di chi illudeva sulla “figlia” finalmente “ribelle”!
Le proteste delle turche non si fermano, ma quando si parla di “Festa della Donna” e anche di “Mese della Donna” bisogna necessariamente tener conto di ciò che avviene in Italia e nel mondo e considerare questi periodi solo come spunti per una drammatica riflessione.
di Alessandra Boga