Quella della “moglie di Cesare” è una storia che si racconta da secoli, da quando ne scrissero Plutarco e Svetonio. Si chiamava Pompea, figlia di Quinto Pompeo e nipote di Lucio Silla, dalla quale Cesare divorziò sospettandola di adulterio con Publio Clodio, quem inter publicas caerimonias penetrasse ad eam muliebri veste tam constans fama erat, ut senatus quaestionam de pollutis sacris decreverit. In sostanza, il giovane focoso, innamoravo non corrisposto di Pompea, aveva avuto l’idea di entrare in casa dell’amata, travestito da donna, durante una festa pagana vietata agli uomini. Scoperto, finì davanti al giudice e confessò ogni cosa, particolarmente che Pompea era del tutto estranea alla tresca. Cesare, tuttavia, in ragione della notorietà dell’evento, che aveva indotto il Senato a procedere per sacrilegio, non volle sentire ragioni e ripudiò la povera Pompea, sostenendo – e così la vicenda è giunta fino a noi – che sui suoi familiari non doveva gravare nemmeno l’ombra di un sospetto.
Non sappiamo, Plutarco e Svetonio non ce lo fanno neppure sospettare, se Cesare abbia approfittato dell’occasione per liberarsi della consorte che non gli andava più a genio, ma è certo, come ricorda Gustavo Selva che titola un suo fortunato libro “La moglie di Cesare (GR2-P2: i retroscena, con nomi e fatti, di una storia italiana [1975-1982] fra politica e giornalismo”, che a quei tempi sparlare di Cesare era come ai nostri dire male di Garibaldi.
L’ho presa alla lontana, anche per il piacere di andare a rileggere il passo di Svetonio che ho richiamato, ma il fine ultimo è quello di qualche riflessione su un tema ricorrente nel dibattito pubblico, quello della moralità degli esponenti di partito o dei loro collaboratori che, insiste Piercamillo Davigo, dovrebbero essere allontanati dai loro ruoli senza attendere che se ne occupi la magistratura. Ho sempre condiviso questa posizione, perché credo che sia interesse della comunità di quanti operano in un partito politico e di quanti lo supportano con il voto che neppure un sospetto macchi chi alla storia del partito può essere ricondotto.
Naturalmente, nel mondo di oggi, nel quale i mezzi d’informazione sono tanti e penetranti, soprattutto i social-media, che è sempre possibile che scatti una trappola accuratamente predisposta per colpire, attraverso una persona, un partito in un momento di particolare esposizione, come la vigilia di una competizione elettorale.
Non c‘è dubbio, infatti, che le vicende di Luca Morisi, guru dell’informazione internet di Matteo Salvini, coinvolto in una questione di sesso e droga, e del parlamentare europeo Carlo Fidanza che avrebbe frequentato persone aduse, secondo Fanpage, ad adottare atteggiamenti politicamente scorretti, perché ritenuti evocatori del Fascismo sa molto di trappole accuratamente predisposte.
Due situazioni diverse sulle quali ovviamente non mi pronuncio ma che consentono di richiamare la storia della “moglie di Cesare”. Perché, da un lato, chi opera in un partito o a fianco di una personalità politica particolarmente esposta deve sentire il dovere di tenere un comportamento che neppure lontanamente possa danneggiare il partito o la personalità con la quale collabora. Ciò perché il pericolo di cadere in un agguato è sempre dietro l’angolo. D’altra parte, è dovere dei capi dei partiti e delle personalità esposte accantonare collaboratori i quali, per abitudini personali, per amicizie o frequentazioni di ambienti ideologicamente ai margini possono essere coinvolte, anche involontariamente in situazioni gravemente imbarazzanti.
Capisco la difficoltà di tenere sotto controllo tutte le situazioni, specialmente in partiti in espansione, come la Lega e Fratelli d’Italia, ma al dovere di chi è tenuto a non mettere in imbarazzo il partito o la persona se percepisce di essere in difficoltà, ugualmente chi comanda deve comportarsi come Cesare che, se “nella circostanza aveva francamente esagerato”, come scrive Gustavo Selva nella introduzione al suo libro, ha tuttavia compiuto un gesto che è rimasto nella storia.