Ottanta parlamentari nei guai: sfruttano i collaboratori con contratti ridicoli e li mandano a fare la spesa

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Parlamentari – Deputati e senatori sono i primi a non rispettare le leggi che approvano quando si trovano a vestire i panni del datore di lavoro. Sono circa 80 i collaboratori parlamentari che in questa legislatura hanno segnalato irregolarità nei contratti stipulati e condotte di sfruttamento, spesso al limite del mobbing. Ci sono «onorevoli» donne che mandano le loro assistenti (pagate dai contribuenti per aiutarle nell’attività legislativa) a comprare gli assorbenti in farmacia e altre colleghe che spediscono giovani laureati al supermercato a fare la spesa, che poi vogliono anche ricevere a domicilio.

Umiliazioni spesso subite in silenzio, per paura di non lavorare più nei palazzi della politica. C’è però chi trova il coraggio di trascinare deputati e senatori davanti al giudice del lavoro. Nell’attuale legislatura sono almeno una ventina le cause intentate dai collaboratori ai rispettivi parlamentari, per svariati tipi di prevaricazioni datoriali.

«I contratti stipulati quasi mai corrispondono al rapporto di lavoro sottostante – spiega l’avvocato Fabio Santoro, legale di fiducia dell’associazione Aicp-I parlamentari che legiferano contro i contratti atipici, sono i primi a usare finti co.co.co., co.co.pro. o partite Iva per risparmiare sul costo del lavoro, a fronte di orari rigidi e un rapporto gerarchico che andrebbe inquadrato come subordinato. Poi ci sono collaboratori che hanno scoperto di non avere un contributo versato dopo anni di lavoro; ad altri non è stato pagato il trattamento di fine rapporto o la tredicesima; c’è addirittura chi si è visto negare documenti fiscali come la certificazione unica. Qualcuno è stato licenziato in maniera semiritorsiva, qualcun altro senza preavviso. Insomma, il Parlamento italiano è un Far West in cui il parlamentare spende come vuole il suo budget».

Il collaboratore è la parte più debole, avendo nella maggior parte dei casi un contratto precario, che può essere interrotto in qualsiasi momento, senza una causale e con poco o nessun preavviso. A ciò, di contro, corrisponde una pressante richiesta di attenzione da parte degli onorevoli, spesso per incombenze personali. «Gli assistenti diventano una sorta di collaboratori domestici, obbligati a lavorare senza turni, anche di domeniche in orario notturno. Per questo – riferisce l’avvocato Santoro – in un primo momento deputati e senatori hanno una reazione muscolare quando sanno di essere stati citati in giudizio e minacciano l’ex collaboratore di chiedergli undanno all’immagine. Poi, però, la stragrande maggioranza di loro, piuttosto che arrivare a sentenza e rischiare la gogna mediatica in caso di condanna, preferisce arrivare a un accordo conciliativo che risarcisce integralmente l’assistente (anche per 20mila euro) ma, di contro, lo obbliga a rigide clausole di riservatezza». Lo scorso luglio la Camera ha finalmente pubblicato i dati ufficiali sul numero dei collaboratori dei deputati, richiesto da anni dall’associazione di categoria. In totale sono 488 gli assistenti contrattualizzati: solo il 24% di loro ha un contratto subordinato; il 40% circa ha un rapporto di collaborazione e il restante 36% è inquadrato come autonomo. Al Senato, invece, non è stato ancora fatto un censimento sui collaboratori, o almeno non è stato reso noto. Il nostro sistema rappresenta una vera e propria anomalia nel contesto europeo. Negli altri Parlamenti, infatti, è previsto un importo mensile specifico destinato alla retribuzione degli assistenti. In Francia, ad esempio, il deputato può scegliere se conferire un apposito mandato all’amministrazione ose provvedervi personalmente. In Germania e al Parlamento europeo la gestione dei collaboratori è effettuata direttamente dall’amministrazione; in Gran Bretagna è gestita dall’Autorità parlamentare indipendente per gli standard (Ipsa). In Italia, invece, non è previsto uno stanziamento specifico. I deputati – oltre all’indennità parlamentare di 5.246 euro netti, la diaria (3.305 euro netti al mese), i rimborsi per le spese di viaggio e per quelle telefoniche – si vedono accreditare sul proprio conto corrente un rimborso «per l’esercizio del mandato», paria 3.690 euro: il 50% di questa somma, se spesa, deve essere rendicontata ed è destinata appunto ai compensi dei collaboratori, ma anche a consulenze, ricerche, gestione dell’ufficio, utilizzo di reti pubbliche di consultazione dati, convegni e sostegno delle attività politiche; il restante 50% viene invece corrisposto al deputato in modo forfettario (ossia senza necessità di giustificativi). Ogni senatore, invece, può chiedere l’accredito per entrare a Palazzo Madama esclusivamente per i collaboratori con i quali abbia instaurato un rapporto di lavoro a titolo oneroso di durata non inferiore a 6 mesi, consegnando al Servizio di questura e del cerimoniale copia del contratto. Con una delibera fatta a suo tempo, era stata definita una prestazione minima di 25 ore mensili per gli assistenti parlamentari, pari a 375 euro. Quindi, considerando una media di 40 ore alla settimana, il compenso mensile dovrebbe essere di circa 2.400 euro.

«Io ho visto tanti contratti da 500 o 600 euro al mese. Nel migliore dei casi, e sono casi isolati, i collaboratori vengono pagati 1.000-1.200 euro netti mensili precisa l’avvocato giuslavorista Santoro- C’è perfino chi ha lavorato in nero o chi, con la promessa di un futuro inquadramento, ha aggirato il sistema dei controlli all’ingresso della Camera o del Senato con inviti quotidiani e poi, dopo qualche mese, si guadagnava sul campo uno stage a titolo gratuito. La pretesa retributiva viene vista come un orpello dai parlamentari che spesso ritengono sia già un riconoscimento frequentare gli uffici delle loro segreterie. Ormai sono tre legislature che sento parlare di proposte di riforma, ma dal 2006 la situazione è andata addirittura peggiorando. Molti giovani onorevoli, pur avendo conosciuto il precariato nella propria carriera lavorativa, non hanno dimostrato la sensibilità che ci si aspettava nella veste di datori di lavoro». Nessuna differenza nemmeno per partito di appartenenza o sesso: «Queste prevaricazioni sono bipartisan e accomunano uomini e donne. Solo il 10% dei parlamentari stipula dei contratti dignitosi. Eppure l’articolo 36 della Costituzione sancisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro», conclude il legale.

C’è infine un problema di sicurezza: chi controlla questo esercito di collaboratori che, dotati di badge email istituzionale, si aggirano liberamente a Montecitorio e Palazzo Madama? L’amministrazione, infatti, in barba ai principi di trasparenza, non chiede loro il curriculum, la fedina penale o il certificato dei carichi pendenti. La dice lunga il caso di Antonello Nicosia, ex assistente parlamentare della deputata molisana di Italia Viva Giusy Occhionero, condannato a marzo con l’accusa di associazione mafiosa.

IlTempo

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