Canfora e il cinismo degli intellettuali che non vedono oltre l’ideologia – La posizione “neneista” non è solo criticabile in sé, vista la mancanza di fondamenti nella realtà, ma è anche pericolosa. Spinge gli studiosi infatuati dei propri schemi a normalizzare la tragedia fino a esprimere indifferenza, se non disprezzo, per la sofferenza delle vittime.
C’è un punto oggettivo di incontro e di unità tra il partito di Canfora, Montanari, De Cesare e dei pacifisti “neneisti” (né con Putin, né con Zelensky) e quello dei Cardini, Veneziani e Borgonovo, che, dall’estremo apparentemente opposto dello spettro ideologico tradizionale, accusano l’Occidente di avventurismo per il suo sostegno alla causa ucraina: è la persuasione che della vicenda ci si stia occupando con troppo generoso volontarismo e senza coscienza delle leggi storiche, che guidano gli eventi e che condannano Kiev e i suoi amici a una sicura e pure provvidenziale sconfitta.
Negli studi strategici abbondano i fautori di un ferreo determinismo geopolitico, convinti di potere vaticinare il corso della storia dei popoli e degli stati come i climatologi possono prevedere se farà sole o pioverà. In loro soccorso, a proposito di questa guerra, che credevano sarebbe scoppiata solo «quelli che non capiscono niente» – come disse uno dei più gettonati aruspici televisivi, Lucio Caracciolo – oggi accorrono anche fior di storici e filosofi, pure molto lontani da un approccio positivista, che censurano le semplificazioni binarie (ad esempio: “aggressori e aggrediti”) e invitano a leggere gli eventi in termini più freddamente scientifici.
Il che vuol dire, all’atto pratico, fottersene di chi bombarda e di chi è bombardato e di qualunque questione di diritto in ordine al campare degli uni e al crepare degli altri, per capire invece in che direzione, tra le cataste dei cadaveri e le macerie della guerra, soffi lo Spirito del mondo, che Hegel vedeva incarnato in Napoleone seduto a cavallo e qualcuno può anche volenterosamente pensare di riconoscere oggi nelle divise dei tagliagole siriani e ceceni, chiamati a riportare l’ordine di Mosca in Ucraina.
Nel secondo dopoguerra con “Miseria dello storicismo” Karl Popper irrise la pretesa metodologica di fare di quella storica una disciplina spirituale olistica, sottratta alle verifiche del metodo scientifico, e contestò per tutta la vita la conseguenza politicamente totalitaria di questa pretesa: la presunzione di usare il potere per compiere il destino della storia. La necessità storica diventava così la grande scriminante, anzi esimente di qualunque nefandezza compiuta contro la vita e la libertà umana.
Oggi i cosiddetti neutralisti di destra e di sinistra – che per fortuna non hanno il potere politico, ma ne esercitano uno contro-politico di ragguardevole impatto – invitano a guardare alla mattanza ucraina come a una vendetta della storia contro la hybris occidentale, che da una parte conferma i loro pregiudizi sulla inevitabile entropia dell’ordine economico e sociale liberal-capitalistico e dall’altro affretta l’esito auspicato del Big Bang dell’ordine politico liberal-democratico.
In questo, com’è inevitabile, la loro pretenziosa filosofia della storia incrocia i più banali wishful thinking e la teoria, per così dire, oggettiva che vede il mondo andare in una direzione riflette il loro desiderio soggettivo che in quella direzione così agognata il mondo davvero ci vada. E chissà che non tocchi proprio al macellaio del Cremlino vendicare i torti dell’imperialismo americano.
Al che si potrebbe concludere che lo storicismo, che tanto ha imperversato nella storia della filosofia e della politica, suscitando fanatiche idolatrie in un presente o in un futuro ideologizzato, andrebbe forse letto più con gli strumenti della psicologia cognitiva e clinica che con quelli della metafisica delle idee. Rimane però il fatto che questo approccio fazioso, dissimulato nel gelido sussiego accademico-scientifico, porta a una disumanizzazione contagiosa del dibattito sulla guerra e all’educazione al cinismo e al disprezzo come strategie di normalizzazione ideologica della tragedia.
Esemplare, da questo punto di vista, è il tono con cui Luciano Canfora ha spiegato altezzosamente che «la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta», cioè un puro accidente al cospetto della sostanza, che questo apologeta dello stalinismo indaga dalla sua immaginaria cattedra di storia universale.
Allo stesso modo non bisogna farsi distrarre da «pianti e urla dei popoli», né farsi accorare dalle «interviste ai passanti» (cioè dalle testimonianze dei profughi), che non dicono niente del significato e della responsabilità della guerra, che è della «potenza che vuole prevaricare», cioè ovviamente dell’Ucraina. Canfora ha particolare amore, come tutti gli storiografi speculativi, per le teorie che non sono messe alla prova dalla realtà, ma che al contrario la riscrivono, cioè la ricacciano dentro uno schema prefissato, deformandola in modo grottesco.
Insomma, anche la guerra di Putin dimostra che, accanto alla miseria dello storicismo, c’è una più personale miseria degli storicisti, con la loro idea che gli uomini siano solo legno che brucia nella fornace della Storia (con la maiuscola) e che i custodi del suo fuoco sacro non possano preoccuparsi della sorte della cenere.