Immunità da vaccino Covid: diminuisce nel tempo ma aumenta la memoria immunitaria

13 mins read
immunità vaccino covid

Immunità da vaccino Covid – Sei mesi fa, Miles Davenport e i suoi colleghi hanno fatto una previsione audace. Sulla base dei risultati pubblicati da studi sui vaccini e altre fonti di dati, hanno stimato che le persone immunizzate contro COVID-19 perderebbero circa la metà dei loro anticorpi difensivi ogni 108 giorni circa.

Di conseguenza, i vaccini che inizialmente offrivano, per esempio, una protezione del 90% contro i casi lievi di malattia potrebbero essere efficaci soltanto al 70% dopo 6 o 7 mesi. “All’epoca sembrava un po’ eccessivo”, dice Davenport, immunologo computazionale presso l’Università del New South Wales a Sydney, in Australia.

Ma nel complesso, le previsioni del suo gruppo si sono avverate. Studi immunologici hanno documentato un costante declino dei livelli di anticorpi tra gli individui vaccinati. Il follow-up a lungo termine dei partecipanti alla sperimentazione del vaccino ha rivelato un rischio crescente di infezione.

In un certo senso una novità scientifica che ha sorpreso gli specialisti e che rappresenta una rivoluzione nello studio di virus e vaccini. I registri sanitari di Paesi come Israele, Regno Unito e altrove mostrano tutti che i vaccini COVID-19 stanno perdendo la loro forza, almeno quando si tratta di mantenere una copertura immunitaria dalle malattie trasmissibili.

Questo senza tenere conto della minaccia Delta. Ed è chiaro che gli anticorpi indotti dal vaccino fanno un lavoro peggiore nel riconoscere le varianti di SARS-CoV-2, rispetto al ceppo ancestrale del virus. Ciò che rimane poco chiaro, tuttavia, è fino a che punto anche le salvaguardie del sistema immunitario che proteggono le persone vaccinate da gravi malattie, ospedalizzazione e morte potrebbero svanire.

“Questa – dice Davenport a Nature – è la domanda da un milione di dollari al momento”. Mentre si animano le discussioni, politiche e scientifiche, sui programmi di richiamo. I funzionari del Regno Unito approvano i booster per gli over 50 mentre i consulenti delle autorità di regolamentazione statunitensi sostengono che il richiamo per tutti è scientificamente inutile.

“L’immunità indotta dal vaccino svanisce – dice Nicole Doria-Rose, immunologa presso l’Istituto Nazionale di Allergia e Malattie Infettive degli Stati Uniti (NIH) a Bethesda -. Ma non tutta svanisce allo stesso modo. Gli anticorpi ‘neutralizzanti’ che possono intercettare i virus prima che si infiltrino nelle cellule potrebbero non resistere a lungo”. I livelli di queste molecole in genere aumentano dopo la vaccinazione, quindi si assottigliano rapidamente mesi dopo. “È così che funzionano i vaccini”, dice Doria-Rose.

Ma le risposte immunitarie cellulari sono più durature, come spiega Jennifer Gommerman, immunologa presso l’Università di Toronto in Canada: “L’immunità cellulare è ciò che protegge dalle malattie. Le cellule B della memoria, che possono distribuire rapidamente più anticorpi in caso di riesposizione al virus, tendono a rimanere in giro, così come le cellule T, che possono attaccare le cellule già infette”. E tutto questo permane.

Entrambe queste difese immunitarie forniscono un’ulteriore misura di protezione nel caso in cui SARS-CoV-2 superi la prima linea di difesa del corpo. In uno degli unici studi a lungo termine a considerare contemporaneamente queste tre assi del sistema immunitario – anticorpi, cellule B e cellule T – i ricercatori hanno scoperto che la vaccinazione stimolava un’immunità cellulare duratura. Le cellule B della memoria hanno continuato a crescere in numero per almeno sei mesi e sono migliorate nel combattere il virus nel tempo.

La conta delle cellule T è rimasta relativamente stabile, calando solo leggermente per tutta la durata del periodo di studio. “Quindi, c’è una potente seconda linea immunitaria attiva, ed è una potente riserva”, dice John Wherry, immunologo presso la Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania a Filadelfia, che ha guidato lo studio. “Gli anticorpi circolanti possono essere in declino, ma il sistema immunitario è in grado di entrare in azione ancora una volta”.

Ma come può la memoria immunitaria diventare più forte? La ricerca dell’immunologo Ali Ellebedy, presso la Washington University School of Medicine di St Louis, aiuta a rispondere sul perché è forte la risposta memoria-cellula B. Il suo gruppo ha prelevato campioni dai linfonodi di individui vaccinati e ha trovato minuscole “scuole di addestramento” delle cellule B – chiamate centri germinali – che stavano sfornando cellule immunitarie sempre più potenti con il passare del tempo.

Le cellule B in queste strutture mutano casualmente i loro geni per creare interi nuovi set di anticorpi. Anticorpi evoluti in grado di combattere Delta e altre varianti di SARS-CoV-2. Ellebedy e colleghi hanno inizialmente descritto la persistenza di questi centri germinali per 15 settimane dopo l’immunizzazione con una dose di vaccino a m-RNA, più a lungo di quanto chiunque avesse mai visto prima con i vaccini di vecchia tecnologia per altri disturbi.

Ora, i ricercatori hanno dati non pubblicati, seguendo i centri germinali per un massimo di sei mesi. “E dopo sei mesi l’addestramento è ancora in corso”, dice Ellebedy. “È incredibile”. Quindi, calano gli anticorpi immediati, ma l’organismo è pronto a combattere sia virus sia sue varianti producendo da solo, grazie alla memoria acquisita, gli anticorpi adatti.

In Israele, però, le persone anziane che hanno ricevuto i loro vaccini all’inizio dell’anno sembravano avere quasi il doppio del rischio di malattie gravi durante un’epidemia di luglio rispetto a individui simili che sono stati immunizzati più di recente. Mentre gli individui più anziani a cui era stata somministrata una terza dose di vaccino avevano meno probabilità di essere infettati e molto meno probabilità di sviluppare una malattia grave rispetto a quelli che non avevano ricevuto i richiami.

Per Eran Segal, biologo computazionale presso il Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele: “Ci sono prove convincenti che la terza dose aumenta notevolmente la protezione”. Ma come sottolinea il biostatistico dell’Università della Pennsylvania Jeffrey Morris, le deduzioni fatte da studi osservazionali di questo tipo dovrebbero essere viste con occhio critico.

Nella vita reale, le persone non sono partecipanti a studi clinici. Non sono randomizzati per tenere conto delle differenze comportamentali e demografiche. E sebbene la modellizzazione statistica possa aiutare a correggere alcune di queste variabili, è impossibile tenere conto di tutti i potenziali fattori confondenti. “La rotta giusta – dice Morris – è quella di un’attenta modellazione e di dati davvero approfonditi per mettere insieme tutti i tasselli del virus, dell’infezione e della gravità dei sintomi che innesca”.

I dati preliminari del Regno Unito e del Qatar sembrerebbero confermare l’esperienza israeliana. I ricercatori inglesi hanno descritto un modesto ma apprezzabile calo dell’efficacia del vaccino contro il ricovero ospedaliero e la morte. Ciò si è verificato a circa 20 settimane dall’inoculazione per i destinatari sia del vaccino a mRNA di Pfizer-BioNTech sia del vaccino a vettore virale di AstraZeneca, sebbene l’effetto sia stato più pronunciato per gli individui più anziani e per quelli con condizioni di salute fragili.

Tra gli anziani, c’era anche un’indicazione che distanziare le prime due dosi di vaccino promuoveva un’immunità protettiva più duratura. Nel frattempo, in Qatar, Laith Abu-Raddad e colleghi hanno descritto, con il vaccino di Pfizer-BioNTech, una protezione costantemente elevata contro le malattie critiche fino a sei mesi dopo l’immunizzazione. L’efficacia del vaccino contro le infezioni lievi o prive di sintomi è diminuita gradualmente, come previsto. Ma Abu-Raddad, epidemiologo di malattie infettive presso Weill Cornell Medicine-Qatar a Doha, non ritiene vi sia necessità di dosi di richiamo.

Non vi sarebbero evidenze scientifiche e, anzi, sembra che più tempo abbia la memoria immunitaria di “maturare” più anticorpi efficaci vengono creati al momento, in caso di infezione. E uno studio degli Stati Uniti ha finora riportato dati solo sulla protezione calante contro l’infezione, non sulla malattia grave. A livello globale, non vi è ancora alcuna indicazione che i tassi di malattie gravi tra i vaccinati stiano aumentando in modo apprezzabile.

La riduzione dei tassi di infezione dovrebbe aiutare a interrompere il ciclo di trasmissione virale, che alla fine si tradurrebbe in un minor numero di casi di COVID-19 grave e di morte. E secondo Fyodor Kondrashov, un genetista evoluzionista presso l’Istituto di Scienza e Tecnologia dell’Austria, dovrebbe anche aiutare a tenere a bada l’emergere di varianti resistenti ai vaccini. “Ciò che è buono dal punto di vista epidemiologico, è buono anche dal punto di vista evolutivo”.

Finora, nessun vaccino umano è stato completamente minato dalla resistenza dei virus come avviene per molti farmaci antibiotici, dice Andrew Read, che studia l’evoluzione delle malattie infettive alla Pennsylvania State University. Questo non vuol dire che non accadrà con i vaccini COVID-19. “Siamo su un nuovo territorio”, dice Read. “La variante Delta ha colto il mondo di sorpresa. L’evoluzione (e le nostre risposte immunologiche) potrebbero avere più sorprese in serbo”.

“Finché le persone vaccinate rimangono fuori dagli ospedali e dagli obitori – conclude Katrina Lythgoe, epidemiologa evoluzionista presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito – gli argomenti teorici sulla resistenza ai vaccini sono secondari. A mio avviso, a parte le persone che sono particolarmente vulnerabili, gli sforzi dovrebbero essere diretti a far vaccinare le persone, a livello globale”.

Cronachediscienza

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Latest from Blog