Il rifiuto da parte giovani donne di matrimoni combinati troppo spesso viene, purtroppo, punito con la morte. La fine della povera Sana, portata con l’inganno in Pakistan per essere uccisa, dovrebbe rappresentare un precedente da non ripetere per brutalità e insensatezza. Eppure, la storia si ripete e quanto accaduto nel bresciano all’interno di una famiglia di origini pakistane, in cui i genitori, con la complicità del fratello maggiore, hanno minacciato di uccidere la più grande delle quattro figlie, tutte sottoposte negli anni a maltrattamenti, rende evidente quanta strada ancora c’è da percorrere. Stavolta la giovane ha avuto fortuna perché la polizia, in coordinamento con la procura, è intervenuta per tempo, imponendo il divieto di avvicinamento alle giovani, nonché la sospensione della potestà genitoriale. Ma la questione è ancora calda e una soluzione plausibile fatica ad arrivare.
Non si può non pretendere che si adottino provvedimenti volti ad evitare quella cultura dell’odio che, oltre a Sana, è colpevole di aver tolto brutalmente la vita a tante altre giovani, tra cui Hina Saleem, Nosheen Butt, Samia Shadid e Rachida Radi, colpevoli solo di volersi integrare.
Non aiuta di certo un approccio all’immigrazione così permissivo e che rende impossibile l’integrazione, e mette a rischio la sicurezza delle persone, delle donne in primis. Il cosiddetto multiculturalismo, dimostratosi fallimentare ormai da tempo, ha fatto sì che l’immigrazione, legale o meno, fosse considerata buona a prescindere. L’auspicio è quello di trovare soluzioni a una battaglia da combattere non solo in Italia, ma nell’Europa tutta, perché queste donne non possono essere lasciate sole.
Di Laila Maher