Muse – Cosa accade se una musa si leva dalla posa, impugna il pennello e realizza uno schizzo su tela? E che accade se lo schizzo diventa un dipinto e poi un altro ancora che lascia sgomenti gli osservatori?
Accade che la musa diventa musa di se stessa.
Quello che conta, adesso, è la SUA volontà, la SUA capacità di creare, di comunicare, di esprimere il SUO Mondo. Per rivoluzionare il Mondo. Pur correndo il rischio di entrare in contrasto con la società, la musa non si ferma: concorre al progresso. Un progresso che si contestualizza nel Secolo della Rinascita, quando le artiste del ‘600 della pittura italiana hanno lottato per non venire offuscate dai colleghi uomini, ma ancora oggi sembrano reclamare quel valore che non ancora gli è stato totalmente attribuito.
A distanza di secoli, il loro talento artistico non può non lasciare il segno; il coraggio delle “Artemisie” è un tesoro d’ispirazione per noi tutti e un modello di forza.
Artemisia Gentileschi
“Figlia” della scuola caravaggesca, vittima di uno stupro e di un umiliante processo.
Nelle sue opere racconta con passione e determinazione la storia di donne coraggiose, capaci di lottare a costo della propria vita per dimostrare di esistere. Le protagoniste di quei dipinti sono le eroine della Bibbia, ma se uno spettatore è attento può facilmente cogliere dietro ognuno di quei volti un unico viso: quello dell’autrice…
Nasce a Roma l’8 luglio 1593.
Nel 1610 a soli 17 anni dipinge il quadro Susanna e i vecchioni.
Nel 1611 subisce uno stupro da parte di un collega del padre, incaricato di insegnarle nozioni di prospettiva.
Nel 1612 si conclude il processo contro Agostino Tassi con una lieve condanna e Artemisia si allontana da Roma; dipinge la prima versione di Giuditta e Oloferne.
Nel 1616 è la prima donna a entrare nell’Accademia del Disegno di Firenze.
Dopo molti viaggi per l’Italia, nel 1630 si stabilisce a Napoli.
Nel 1637 (o 1638) raggiunge il padre Orazio alla corte di Carlo I d’Inghilterra.
Nel 1641 (o 1642) torna a Napoli dove muore nel 1652.
Sin dall’inizio si confronta con temi importanti come i soggetti sacri, ma con un taglio ravvicinato e un chiaroscuro estremo, fedele alla drammatizzazione di stampo caravaggesco e barocco: temi biblici scelti spesso tra le eroine dell’Antico Testamento; chiaroscuro con forte contrasto luci e ombre; figure femminili forti e attive; realismo violento e coinvolgente; scene dinamiche e sfondi scuri, tipici del caravaggismo.
FONTE Dueminutidiarte.com: https://dueminutidiarte.com/2016/03/06/artemisia-gentileschi-biografia-opere-riassunto/
Studenti.it: https://www.studenti.it/artemisia-gentileschi-biografia-e-opere.html
Lavinia Fontana
Bologna 1552 – Roma 1614. “Venne ella a Roma nel pontificato di Clemente VIII e per diversi particolari molto operò, e nel rassomigliare i volti altrui, qui fece gran profitto, e ritrasse la maggior parte delle dame a Roma e spetialmente le Signore Principesse e anche molti Signori Principi, e Cardinali onde gran fama e credito ne acquistò, e per esser una Donna, in questa sorte di pittura, assai bene si portava”.
( Baglione Giovanni, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti, Roma MDCXLII, Ristampa: Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1995, pag. 143)
Anche Lavinia Fontana, come la quasi totalità delle pittrici dal Rinascimento all’Ottocento, è figlia d’arte. Suo padre, Prospero, era infatti un affermato pittore bolognese e fu anche il suo primo maestro. Le donne, fino ad Ottocento inoltrato, non avevano accesso a botteghe, scuole, accademie o altri luoghi dove acquisire un’educazione artistica vera e propria e dunque l’apprendimento doveva necessariamente avvenire in ambito famigliare.
Prospero Fontana non era solo un pittore affermato, ma era anche un umanista, un uomo colto, raffinato e ben inserito nei circoli culturali della città. Frequentava intellettuali e pittori, tra cui Annibale e Ludovico Carracci, Lorenzo Sabbatini e il Giambologna. Nel suo studio abbondavano libri d’arte, copie di capolavori e oggetti antichi che collezionava. Tutto questo giocò un ruolo decisivo nella formazione di Lavinia, una donna perciò privilegiata perché ebbe accesso immediato e illimitato non solo alla pratica della pittura, ma anche al mondo della cultura, a differenza di quasi tutte le sue contemporanee.
Nel 1577 Lavinia sposò Giovanni Paolo Zappi, un pittore generalmente ritenuto di livello artistico mediocre, figlio di un ricco mercante di Imola, che fu funzionale alla carriera di Lavinia, diventandone di fatto l’agente. Il contratto matrimoniale specificava che i coniugi avrebbero dovuto vivere a Bologna, nella casa di Prospero Fontana, fino alla sua morte e che era dovere del marito occuparsi della gestione degli introiti che la moglie avesse ottenuto come “pittora”: Prospero, in sostanza, voleva essere sicuro che la figlia continuasse a praticare la sua arte anche da sposata, cosa per nulla automatica all’epoca, e questa imposizione al futuro genero è da leggersi come una sua attestazione di stima nei confronti della figlia.
Alla fine degli anni Ottanta del Cinquecento Lavinia Fontana Zappi era ormai una pittrice affermata che dipingeva prevalentemente ritratti dei notabili di Bologna, soprattutto delle nobildonne, per le quali farsi ritrarre dalla nota “pittora” divenne quasi una moda. La sua perizia di sapore fiammingo nel cogliere i dettagli, diretta figliazione del gusto per il collezionismo del padre da un lato e dell‘amore per la conoscenza enciclopedica tipico dei tempi, era ammirata da tutti.
Ma Lavinia Fontana precorse anche i tempi dal punto di vista gestionale e pratico della sua carriera.
Seppe coltivare legami e contatti altolocati, scelse per i suoi figli padrini e madrine illustri, dimostrando astuzia e abilità nel consolidare la clientela e garantirsi la committenza e, per rinsaldare ulteriormente questi legami, addirittura battezzò alcune sue figlie con il nome delle sue committenti: Laudomia, come Laudomia Gozzadini, nobildonna bolognese ritratta con la famiglia in
uno dei suoi dipinti più famosi, e Costanza, come Costanza Sforza, a sua volta ritratta dalla pittrice bolognese.
Nel 1583 la “pittora” ricevette la prima commissione pubblica, cioè quella di una pala d’altare per la cattedrale di Imola, città d’origine del marito. È la prima opera a soggetto religioso, per un committente religioso e destinata ad una chiesa, dipinta da una donna nella storia dell’arte occidentale. A questa ne seguirono altre, tra cui la pala d’altare destinata alla chiesa di Santa Sabina a Roma, raffigurante la Visione di San Giacinto, e la pala d’altare raffigurante il Martirio di Santo Stefano per la chiesa di San Paolo Fuori Le Mura a Roma (distrutta in un incendio nel 1823). Morto Prospero Fontana, i coniugi Zappi, liberi dal vincolo che li teneva a Bologna e dando finalmente ascolto all’incoraggiamento del cardinal Bernerio, sostenitore e committente di Lavinia, decisero di trasferirsi a Roma insieme ai quattro figli all’epoca ancora in vita.
Qui Lavinia Fontana godette di un periodo particolarmente brillante dal punto di vista professionale. Del resto, già quando abitava a Bologna aveva intessuto una rete di conoscenze e committenze a Roma e dunque si inserì molto velocemente quando vi si trasferì. La sua fama è attestata dalla medaglia commemorativa coniata in suo onore nel 1611 e dal commento dell’autorevole storico dell’arte Giovanni Baglione, che non poté esimersi dallo scrivere, con una certa condiscendenza: “Venne ella a Roma nel pontificato di Clemente VIII e per diversi particolari molto operò, e nel rassomigliare i volti altrui, qui fece gran profitto, e ritrasse la maggior parte delle dame a Roma e spetialmente le Signore Principesse e anche molti Signori Principi, e Cardinali onde gran fama e credito ne acquistò, e per esser una Donna, in questa sorte di pittura, assai bene si portava”.
A Roma lavorò sia per committenti romani, sia di altre città, che le affidavano incarichi a distanza, anzi, la sua attività era talmente intensa che dovette addirittura rifiutare molti lavori. Ma a Roma
morì la figlia Laudomia appena quattordicenne e questo velò di tristezza i successi della maturità.
Negli ultimi anni la pittrice fu anche afflitta dall’artrite che le rese doloroso l’esercizio della pittura.
L’ultima sua opera, eseguita a Roma, è il primo nudo femminile per mano di una donna nell’arte occidentale. Minerva nell’atto di vestirsi (olio su tela, 258 X 190 cm) fu commissionato da Scipione Borghese un anno prima della morte della pittrice. Il dipinto si discosta dall’iconografia tradizionale, anzi la sovverte completamente, a testimoniare l’originalità dello sguardo femminile nell’arte. Lavinia ci offre infatti il ritratto di una giovane donna vista di profilo e in movimento. Non dunque un corpo sensuale, una bellezza inerte che esiste in funzione di chi la contempla, ma una dea-ragazza agile, longilinea e sbarazzina che ha appena abbandonato le armi, lo scudo e l’elmo, e che sta per rivestirsi di abiti borghesi. Un nudo che è naturalezza, femminilità senza fronzoli, la donna come persona sotto la veste, l’orpello e il simbolo, in un momento qualsiasi della sua intimità.
Lavinia Fontana è la donna artista rinascimentale di cui sopravvivono più opere in assoluto e lo stesso fatto che molte sue tele siano rintracciabili dimostra quanto la committenza tenesse in considerazione i suoi lavori. Libera, ambiziosa, desiderosa di cimentarsi in tutti i generi di pittura, anche quelli preclusi alle donne, fu, indubbiamente, anche instancabile e tenace, mantenendo un volume di lavoro altissimo nonostante le undici gravidanze portate a termine.
Fu sepolta nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, ma la lastra tombale è stata successivamente rimossa.
FONTE enciclodediadelledonne.it http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/lavinia-fontana/
Fede Galizia
Figura di spicco della pittura italiana del 600.
Una tra le donne che seppero rompere con la tradizione patriarcale della bottega d’artista e fecero della pittura il loro mestiere, aiutate nello scopo anche dalla convinta aderenza alla causa della Riforma romana.
Milano, 1578? – 1630 Milano fra il XVI e il XVII secolo era una città ancora vivace, già all’epoca rinomata in tutta Europa per la raffinatezza delle sue produzioni artistiche e artigianali; era, in un certo
senso, “ambasciatrice” del Made in Italy ante litteram. Qui, il padre Nunzio Galizia ottenne un certo successo commerciale producendo raffinati ventagli in seta e piume, incisioni per libri di pregio, gioielli, abiti e miniature. Nella bottega paterna, dove iniziò presto a fare pratica, Fede Galizia scoprì la pittura e la riconobbe come la propria strada professionale.
Parmigianino e Correggio furono i suoi modelli principali di riferimento, ma seppe comunque sviluppare un suo stile personale che affinò esercitandosi a copiare le opere dei maestri dell’epoca. Si dedicò alla natura morta, al ritratto e alle scene bibliche. In particolare, dal ritratto, emerge un certo naturalismo nella forte caratterizzazione fisiognomica. Fu la prima pittrice ad affrontare il tema di Giuditta e Oloferne, e la sua
opera, con grazia tutta femminile, indulge più sulla cura delle vesti e dei gioielli della protagonista che non sulla drammaticità della scena; infatti, la testa di Oloferne rimane
nell’ombra, mentre Giuditta risplende nel suo sfolgorante e sontuoso abito. Parimenti curatissima nelle vesti e nell’acconciatura, la Maddalena del Noli me tangere, opera dall’articolata narrativa, tuttavia smorzata nel naturalismo, in ossequio allo ieraticismo del clima dottrinale controriformato.
FONTE
artribune.com:https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2021/08/mostra-fede-galizia-castello-buonconsiglio-trento/
Elisabetta Sirani
Bologna 1638 – 1665. Elisabetta Sirani nacque, visse e lavorò nella Bologna post-tridentina, dove morì all’età di ventisette anni. Non per avvelenamento, come suggeriva la leggenda che circolò per anni,
ma per un attacco di peritonite seguita alla rottura di un’ulcera peptica. Elisabetta era la figlia più famosa dell’affermato artista e mercante d’arte bolognese Giovanni Andrea Sirani (1610-1670), primo assistente di Guido Reni, e divenne negli anni pittrice professionista e acquafortista: a soli ventiquattro anni era già a capo della sua bottega, proprio negli stessi anni in cui il padre smise di dipingere a causa della gotta. Diventò poi Professoressa all’Accademia d’arte di San Luca a Roma, e la prima artista donna in Europa a fondare una scuola femminile di pittura, l’Accademia del Disegno. Elisabetta diventò l’artista donna più celebrata e
quotata di Bologna e le sue opere vennero esposte nelle maggiori collezioni europee già durante la sua breve vita. Divenne famosa per il suo stile alto barocco “ultramoderno” e ammirata per il virtuosismo tecnico e artistico: sviluppava sulle sue tele erudite uno stile pittorico espressivo e veloce, con pennellate ampie e un impasto fluido (secondo le modalità suggerite dalla “sprezzatura”) abbinato a un intenso e raffinato senso del colore e del chiaroscuro. Si può considerare una “Virtuosa del pennello”. Al raggiungimento della maturità artistica, tra il 1662 e il 1664, Elisabetta era già diventata una delle artiste più
significative di Bologna: i suoi lavori godevano di ottima considerazione nei circoli di mercanti, professionisti e intellettuali, oltre che tra le élite aristocratiche, politiche ed ecclesiastiche della città. Veniva celebrata anche da regnanti e diplomatici d’Italia e d’Europa, che cercavano ansiosamente di possedere una delle opere di questa meravigliosa giovane. Durante il suo funerale civile Giovanni Luigi Picinardi la esaltò come
«la gloria del sesso Donnesco, la Gemma d’Italia e il Sole della Europa», e il suo mentore e biografo, il critico d’arte Conte Carlo Cesare Malvasia, che l’aveva incoraggiata e aiutata ad avviare la sua carriera, ritrasse l’artista come l’eroina culturale di Bologna: la “Pittrice Eroina” della sua “Felsina”.
La vasta rete dei mecenati di Elisabetta, sviluppata negli anni della formazione, delle mostre e delle strategie promozionali e sostenuta dalla gestione imprenditoriale del padre e degli agenti che rappresentavano le famiglie senatorie bolognesi, le garantì il successo professionale e sociale in una società che già incoraggiava attivamente il coinvolgimento delle donne nella vita pubblica e religiosa e valorizzava la creatività, l’istruzione e le conquiste intellettuali femminili. In questo contesto Elisabetta diede un contributo decisivo allo sviluppo della Scuola Bolognese di pittura alla metà del Seicento, anche se la sua
carriera professionale abbracciò solo il decennio 1655-1665.
FONTE: enciclopediadelledonne.it:http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/elisabetta-sirani/
Sofonisba
Una rappresentante femminile della pittura italiana nel Rinascimento, in un periodo in cui le donne erano principalmente muse ispiratrici e soggetti principali delle tele.
Nei quadri di Sofonisba è evidente quel contrasto tra luce e ombre che la farà da padrone per tutto il Seicento. Il suo genio fu riconosciuto da alcuni dei maggiori artisti e intellettuali del tempo, tra cui Vasari e Michelangelo.
Nata in una famiglia aristocratica in quel di Cremona, Sofonisba (Cremona, 2 febbraio 1532 – Palermo, 16 novembre 1625) è la prima dei sette figli di Amilcare Anguissola e Bianca Ponzoni, sposata in seconde nozze intorno al 1530.Introdotta dal padre, assieme alle sorelle, allo studio della pittura, della letteratura e della musica come prescrivevano i dettami di Baldassarre Castiglione, Sofonisba Anguissola si dimostra
presto abile disegnatrice e pittrice. Assieme alla sorella Elena studia pittura, prima presso la bottega di Bernardino Campi, imparando a dipingere ritratti dal naturale, poi in quella di Bernardino Gatti, dove apprende le tecniche della raffinata arte emiliana. Gli studi non comprendono, però, matematica e prospettiva, così come l’insegnamento della tecnica ad affresco, ma anche la composizione delle storie, sia sacre che profane. Nonostante la fama, Sofonisba non sarà mai pittrice di professione, non ottenendo denaro come ricompensa per i suoi ritratti ed essendo pagata con ricchi doni (abiti e gioielli) e vitalizi.
Ma cosa porta Sofonisba Anguissola ad avvicinarsi così tanto al mondo dell’arte sino ad abbracciarlo nel suo percorso di vita? Fondamentale è la figura del padre Amilcare, primo sostenitore del lavoro della figlia; a questi il merito di aver introdotto la figlia nelle corti italiane del tempo, dove spicca non solo per il suo talento artistico, ma anche per la sua fine cultura letteraria e musicale. Ed è proprio il padre a scrivere a Michelangelo Buonarroti inviandogli i disegni di Sofonisba; tra questi, anche il Fanciullo morso da un gambero che sorprende Michelangelo per la spontaneità e l’accuratezza dell’espressione di quel bambino improvvisamente pizzicato dal crostaceo.
Una rappresentazione che vi avrà portato sicuramente alla mente un altro noto capolavoro di un grande pittore: sembra, infatti, che proprio Caravaggio abbia preso ispirazione dalla smorfia di dolore impressa al fanciullo da Sofonisba per il suo Ragazzo morso da un ramarro.
È il 1558 quando Sofonisba Anguissola, ormai pittrice affermata, lascia l’Italia a soli 26 anni per recarsi alla corte spagnola su invito del re di Spagna Filippo II. Introdotta come pittrice e dama di corte della regina Elisabetta di Valois, l’artista realizza numerosi ritratti ufficiali guidando, inoltre, la regina nel suo sviluppo artistico, nonché nella formazione delle figlie…
FONTE orizzontecultura.com: https://orizzontecultura.com/la-donna-nellarte-sofonisba-anguissola/