Quando si affronta la questione libanese bisogna sempre aver chiaro un concetto, il Libano non è uno Stato. Ovvero, più che uno Stato con un popolo, il Libano è un contratto tra più comunità.
Dopo la tragedia della guerra civile del 1975-90, in Libano non si è concretizzato nessun reale processo di riconciliazione tra le parti in causa, si è sancita più che altro una tregua, su cui aleggia costantemente lo spettro che un evento qualsiasi possa metterla nuovamente in discussione.
Quando lo scorso 14 ottobre durante la manifestazione dei due principali gruppi sciiti, Hezbollah e Amal, convocata per chiedere le dimissioni del giudice cristiano che indaga sull’esplosione al porto di Beirut, sono scoppiati scontri che hanno portato alla morte di sei persone, si è temuto il peggio. Ossia il ritorno dello spettro: la guerra civile.
Il peggio fortunatamente non si è concretizzato, restano però alcune considerazioni da fare.
In primis, nessuno si fida di nessuno. Gli sciiti non accetteranno mai una verità giudiziaria proveniente da un giudice cristiano che non ha esitato a coinvolgere nelle indagini apparati giudiziari di paesi occidentali, USA e Francia, noti avversari della fazione sciita sostenuta dall’Iran.
In seconda battuta una considerazione amara che discende dalla prima, non ci sarà mai una verità sulla terribile esplosione al porto di Beirut costata la vita ad oltre 200 persone. L’assenza di fiducia tra le parti che alimenta costantemente dietrologie su ogni persona o fatto, sommata alla costante spartizione del potere in qualsiasi ambito della vita, comporta l’idea che le colpe anche si spartiscano tra tutti e che quindi non esista un vero colpevole. Nessun colpevole. È la grottesca conclusione di un thriller dove uno Stato viene ucciso ma non c’è l’assassino.
Mentre si cercano i colpevoli, il popolo soffre. In concomitanza con le proteste la crisi economica morde, in particolare la crisi del carburante con i prezzi della benzina alle stelle ed i blackout che sono una realtà quotidiana. Lo show delle petroliere iraniane non ha portato reali benefici al Paese ma, anzi, ha promosso il raggiungimento, tra gli antagonisti di Teheran, di un accordo che dovrebbe alleviare la crisi elettrica libanese. Questa infatti verrà fornita dalla Giordania (con il sostegno finanziario della Banca Mondiale) tramite la Siria e con la benedizione di Washington che, pur di stroncare la propaganda iraniana, è disposta a dare riconoscimento internazionale alla Siria di Assad.
Ma, come si sa, piove sempre sul bagnato: dopo la crisi energetica quella diplomatica.
In seguito alle dichiarazioni del Ministro dell’Informazione libanese, George Kordahi, in cui condannava la guerra nello Yemen, il regno saudita ha ritirato l’ambasciatore espellendo quello libanese bloccando inoltre le esportazioni libanesi verso il Regno. Alle proteste saudite si sono affiancati poi altri Paesi arabi, ma la conseguenza peggiore per Beirut è proprio il succitato blocco delle importazioni di beni libanesi da parte del regno wahabita, azione che va a colpire la già disastrata economia libanese.
Il ministro, anche se sotto pressione perché si dimetta, è sostenuto da Hezbollah che ovviamente non vuole cedere campo al nemico saudita.
La situazione, come sempre, è più intricata di una semplice dichiarazione scottante da parte di un ministro che per di più al tempo del rilascio dell’intervista era ancora un privato cittadino. La questione è che l’Arabia Saudita dopo aver rotto con il fronte sunnita libanese di Hariri, stava venendo tagliata fuori dall’influenza sul Paese a vantaggio di altre potenze sunnite come la Turchia. Con giudizio Riyad ha deciso di innescare ora la crisi usando la leva economica per tornare ad avere un potere d’influenza sul neonato governo Mikati. Le tensioni con l’Arabia Saudita possono costar care al Libano. Il blocco delle merci libanesi potrebbe colpire Beirut per un totale di 300 milioni di dollari all’anno. Ma il vero asso nella manica di Mohammed bin Salman è l’utilizzo della diaspora libanese. Il Paese dei cedri dipende più che mai dalle rimesse dei suoi espatriati di cui più di 260.000 sono in Arabia Saudita, facendo della comunità libanese saudita la più numerosa tra paesi arabi. Un blocco saudita alle rimesse dei libanesi nel regno creerebbe un danno economico ancora peggiore del blocco delle merci. Ma soprattutto l’anno prossimo si voterà in Libano e gli espatriati parteciperanno alle elezioni parlamentari. Quindi MBS ha un’ottima carta da giocare facendo pressione economica sul paese con il blocco alle importazioni ma consentendo ai libanesi della diaspora di continuare a inviare le rimesse.
Come per l’esplosione al porto di Beirut, attore centrale in tutte le crisi libanesi è Hezbollah. “Il partito di Dio” è un vero e proprio Stato nello Stato nel Paese dei cedri, per brevità possiamo definire Hezbollah come il proxy di Teheran in Libano, rientrante nella strategia degli ayatollah di finanziare tutti quei partiti e movimenti sciiti nell’arco Mediorientale.
Anche in questa crisi con l’Arabia Saudita il classico conflitto sciiti-sunniti è riproposto in quanto lo stesso Ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan, ha dichiarato “la crisi con il Libano è radicata nell’egemonia di Hezbollah”. Anche se la realtà è più complessa, il tutto rientra pienamente nella dinamica dello scontro Iran-Arabia Saudita.
Infine, come visto, il Libano è un piccolo Paese dai grandi problemi e dai numerosi attori interni ed esterni. Nello scacchiere mediorientale con il disimpegno americano nuove potenze si affacciano nel Paese (Cina e Russia), ed al confine sud con Israele continua a salire la tensione come anche a largo sui giacimenti di gas naturale. Tuttavia queste sono altre storie. Quello che conta è che ancora una volta sulla pelle dei popoli, e dei più deboli in particolar modo, si combattono guerre di potere che finiranno sempre per alimentare altro caos senza risolverlo e che aggraveranno la già tragica situazione dei più fragili.