Le api non sarebbero affatto in via d’estinzione, tutt’altro

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Le api non sarebbero affatto in via d’estinzione, tutt’altro – Il luogo comune che vuole questi insetti in pericolo, spiega il New York Times, ha portato a un boom dell’apicoltura che ora, paradossalmente, mette a rischio la biodiversità.

Non è vero che le api, soprattutto quelle da miele, sono in via d’estinzione. Anzi, forse ce ne sono persino troppe, al punto da affollare l’ecosistema a discapito di altri tipi di impollinatori. Trattate quasi come animali domestici, tanto che il New York Times le paragona nientemeno che alle mucche!

Insomma, si corre il rischio di un conflitto tra insetti. “La cosa migliore che si potrebbe fare per le api mellifere in questo momento? È di non dedicarsi all’apicoltura e lasciarle perdere”, dichiara al quotidiano newyorkese Gorazd Trusnovec, cinquantenne fondatore e unico impiegato di un’impresa chiamata Najemi Panj, letteralmente “affitta un alveare”, il quale in cambio d’un abbonamento installa una colonia di api da miele sul tetto di un ufficio, di una casa o dentro un cortile, assicurandosi che le sue api siano sane e soprattutto produttive. In cambio, i clienti hanno il miele e il piacere di fare qualcosa che tutela le api e tutela l’ambiente.

L’iniziativa “affitta un alveare” ha avuto però un tale successo, secondo il giornale, che ora si rischia persino un contraccolpo per l’ambiente. Perché se lo si riempie di api mellifere, si ha una “competizione di risorse naturali”. E poiché le api sono in maggioranza, finiscono per escludere tutti gli altri impollinatori “recando un danno alla biodiversità”.

Sempre più apicoltori

Il punto è che c’è una convinzione diffusa quanto radicata che la popolazione globale delle api mellifere “sia diminuita pericolosamente”, almeno nell’ultimo decennio, ciò che ha prodotto “un boom dell’apicoltura”, specie tra aziende “desiderose di dimostrare una propensione verde e ambientalista”, chiosa la testata Usa.

Il timore della loro estinzione dura da decenni, ma tutto ha inizio nell’autunno 2006 quando un apicoltore americano di nome Dave Hackenberg ha controllato i suoi 400 alveari e ha scoperto che la maggior parte delle api operaie era scomparsa. Altri hanno subito lamentato di aver perso oltre il 90% degli alveari. L

e cause? Gli esperti tendono ad addossare la colpa ai pesticidi, a una riduzione dell’habitat e al cambiamento climatico. Da lì è partita la grande campagna in favore delle api al grido “salviamole”. E per controbilanciare il rischio di una loro estinzione o di una sensibile riduzione, molte persone si sono sentite in dovere di prendere o “affittare un alveare”.

Oltre 20 mila specie di api selvatiche

Morale? “Ora ci sono più api mellifere sul pianeta di quante ce ne siano mai state nella storia umana”, dichiara Scott Hoffman Black, direttore esecutivo della Xerces Society for Invertebrate Conservation a Portland nell’Oregon. Tant’è che, stando ai dati dell’Organizzazione dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, il numero di alveari in tutto il mondo è aumentato di quasi il 26% nell’ultimo decennio, “passando da 81 milioni a 102 milioni”. Ma nessuno è disposto a convincersi che sia così mentre persiste la narrativa dell’estinzione.

Il punto è che c’è confusione all’origine, in merito a quale sia davvero il tipo di ape che ha effettivamente bisogno d’esser salvata. Scrive il quotidiano che “ci sono più di 20.000 specie di api selvatiche nel mondo e la maggior parte delle persone non si rendono conto che sia così”. E solo per il fatto che non producono miele e sono quasi invisibili, vivendo per lo più tra i nidi e nelle cavità del terreno o dei tronchi d’albero. Pur tuttavia sono anch’esse “indispensabili impollinatori di piante, fiori e colture”.

Chiosa il New York Times: “Chiedere alle persone di ridurre il proprio entusiasmo per le api non è affatto facile. Nel mondo degli insetti sono delle celebrità, fonte di fascino, per la loro struttura sociale straordinariamente efficiente e vengono citate in quasi tutte le religioni del mondo” come le api operaie.

“L’articolo del New York Times è molto bello”, dice Costanza Geppert, ricercatrice della materia presso il Dafnae dell’Università di Padova, “finalmente qualcuno che dice chiaro e tondo come stanno le cose…”.

La ricercatrice: “Troppa semplificazione”

La ricercatrice sostiene che l’articolo del giornale americano solleva una problematica che sta diventando un po’ un paradosso, nel senso che gli insetti impollinatori, grazie al fatto che sono utili per qualcosa di molto facilmente comprensibile, cioè per il cibo che noi mangiamo, sono diventati un po’ il cavallo di battaglia per la conservazione della biodiversità, ma si è semplificato a tal punto il loro ruolo da concentrarsi solo su una singola specie di ape quando appunto nel mondo abbiamo più di ventimila tipi di api selvatiche, per non parlare poi di tanti altri tipi di impollinatori”.

Ma perché questa semplificazione? “L’articolo lo spiega bene – soggiunge Costanza Geppert – perché definisce l’ape mellifera un animale domestico, tanto da paragonarlo alle mucche. Una forma di animale domestico gestito per guadagnare, c’è sopra un business, che avviene attraverso la produzione del miele in primis, ma anche attraverso la produzione del propoli, la cera e poi attraverso l’impollinazione stessa”.

Quindi si tratta di un articolo che va controcorrente? Che demistifica un luogo comune? “Diciamo che è un articolo che dice le cose chiaramente, che spesso sostengono gli stessi ecologi anche se molto tra di loro come spesso avviene nell’attività scientifica. Nel nostro campo di ricercatori di impollinatori conosciamo tutti benissimo questo aspetto del problema ma facciamo fatica a portarlo a conoscenza all’esterno del nostro mondo. Nel frattempo, spopolano gli spot di Greenpeace e l’attenzione mediatica è tutta rivolta a una problematica importante ma affrontata con una lente del tutto sbagliata”.

Un lungo cammino accanto all’uomo

Ma a cosa è dovuto questo mito dell’ape mellifera, divenuta una sorta di dea o una cartina al tornasole della sopravvivenza della specie umana? “Beh, intanto lo si deve al fatto che è un animale fantastico – risponde la ricercatrice – dal punto di vista biologico ed etologico, oltre a fare il miele e essere un animale che ci accompagna proprio dal punto di vista culturale, già gli egizi allevavano le api, tante popolazioni in luoghi diversi hanno allevato le api, non necessariamente la stessa specie ma specie simili per avere il miele”.

In ultima analisi, si tratta di un insetto “collegato molto alla nostra cultura e alla nostra storia”, tanto più che l’ape mellifera “ha questo comportamento sociale e organizzativo piramidale legato alla regina, ai voli, il volo nuziale, lo sciame e tutta una serie di riti che sono di per sé affascinantissimi”.

Per Geppert le api mellifere “hanno riti e biologia complessa” quindi “attirano l’attenzione ovviamente”, perciò “abbiamo con questo insetto un rapporto intrecciato più profondamente rispetto ad altre api, che magari nemmeno vediamo, non sappiamo neppure che esistano. Tutto questo, probabilmente, ha creato questa distorsione e anche il suo mito”, conclude la ricercatrice del Dafnae, il Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente, dell’Università di Padova.

L’inglese Guardian racconta anche che BeeHero, startup della California nata in Israele, sta cercando di cambiare i criteri dell’impollinazione “impiegando una serie di metodi hi-tech per aiutare a gestire e proteggere gli alveari, compresi i programmi di intelligenza artificiale” che possono influenzare il futuro degli alveari e far sì che restino sani e protetti. Ma il punto è che “se l’apicoltura non diviene più redditizia, allora non avremo più apicoltori per mantenere le api. E senza di loro, non ci saranno api”, ammette con timore Omer Davidi, Ceo di Beehero.

Agi

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