Il lancio da parte di Benetton dell’ “hijab unisex” (anche per uomini), disegnato dal famoso rapper milanese di origine tunisina Ghali (seguitissimo dai giovani), che in questo modo vorrebbe promuovere l’inclusività, ha scatenato polemiche non solo in Italia. Il quotidiano “Il Foglio” qualche giorno fa, in un articolo intitolato provocatoriamente “Sii libero e sottomettiti: la spettacolare banalizzazione dell’hijab”, cita per esempio la giornalista francese Valérie Toranian. E’ direttrice del mensile letterario francese “Revue des Deux Mondes”. Sulla sua rivista sottolinea che “La società Benetton, il cui fatturato è crollato da quando è iniziata la pandemia, tenta di risollevarsi con una furba campagna pubblicitaria” (in un precedente articolo “Il Foglio” ha fatto sapere che l’ l’hijab di Benetton in Francia ha fatto “arrabbiare sia i macronisti sia gli esponenti della destra” come il candidato Eric Zemmour, candidato alle elezioni presidenziali del 2022 ndr”).
Già perché, se è vero che a volte si dice: “Perché non sono gli uomini musulmani a mettersi il velo, anziché preoccuparsi del modo di vestire e del pudore della donna?”, l’ottica di questo capo di vestiario è ben diversa da quella che spinse un gruppo di uomini in Iran nel 2016 a lanciare un movimento chiamato “hijab per gli uomini” (lo ricorda sempre il quotidiano “Il Foglio”). L’ “hijab unisex” non è nato per dimostrare solidarietà alle donne costrette a portare il velo in Italia, in Iran, in Arabia Saudita o il burqa talebano non Afghanistan; ma, ha spiegato Ghali, è stata una risposta (da lui fortemente voluta, ha detto!) al bullismo di cui è stato vittima a scuola, per le sue origini straniere.
“Non c’era nessuno che mi rappresentasse, mentre ora è la normalità”, ha dichiarato il rapper. Ora, non può che dispiacerci immensamente e indignarci, che Ghali sia stato bullizzato; ma lui di sicuro, essendo un maschio, non ha mai indossato o dovuto indossare l’hijab: anche per tale ragione come può sentirsi rappresentato da quest’ultimo? E’ un indumento con cui l’integralismo islamico pretende di misurare con centimetri di stoffa la moralità di una donna e simbolo dell’islam politico sostenuto dai Fratelli Musulmani, che in Occidente sono troppo spesso visti come “moderati”.
Di questo concetto è senz’altro ben consapevole Valérie Toranian. Raccontiamo un po’ la biografia di questa giornalista. Nata nel 1962 a Suresnes, un sobborgo di Parigi, nell’Ile – de France, all’anagrafe si chiama Valérie Astrig Couyoumdjian. E’ figlia di madre francese, della Normandia, e di padre armeno. I familiari di quest’ultimo erano sopravvissuti del Genocidio Armeno e si stabilirono a Marsiglia.
Nel 1983, la Toranian iniziò la sua carriera come scrittrice freelance e con questa posizione cominciò a lavorare per il settore “Bellezza” per la famosa rivista “Elle”. Venne ufficialmente assunta nel 1994 e fu promossa vicedirettrice del settore “Moda” nel 1996. In seguito diventò redattrice e poi vicepresidente del periodico, carica che mantenne fino al 2002, quando divenne redattrice capo.
Nel frattempo aveva fondato col suo primo marito Ara Toranian il giornale armeno “Nouvelles d’Armenie”. Nel 2004 divenne vicepresidente della Fondazione “Elle”, che si occupa della condizione della donna in tutto il mondo. La Toranian diventò presidente della Fondazione nel 2010. Nello stesso anno pubblicò un romanzo dal titolo “Pur en Finir avec la Femme”, che parla del femminismo.
Paladina dei diritti delle donne, la giornalista ha tenuto diverse conferenze e sul tema. Per esempio c’è l’annuale Forum delle Donne cheh a luogo a Deauville, in Normandia.
Nel dicembre del 2014 Valérie Toranian divenne direttrice generale di “Revue des deux Mondes”. Nel 2015 pubblicò un romanzo sul Genocidio Armeno dal titolo “L’Etrangère”. Con un profilo così non può non rendersi conto che l’hijab (ancorché “unisex”) non sia semplicemente un capo di abbigliamento … qualcosa di “fashion”!