“Cerco giustizia per mia madre e rivoglio mio figlio”: l’intervista a Dalal Nabih

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Dalal Nabih

Dalal Nabih è una donna marocchina, di 36 anni, 31 dei quali trascorsi in Italia. Ho avuto occasione di conoscerla ed intervistarla qualche anno fa. Ha una storia dolorosissima, fatta di un padre che ha ucciso sua madre e di un matrimonio combinato a cui si è ribellata, ma purtroppo il marito ha rapito il suo primo figlio e tanto altro. Col tempo si è rifatta una vita, ma cerca ancora giustizia. Dalal Nabih ci ha concesso una lunga intervista.

Dalal, vuoi raccontarci la tua storia, partendo dalla tua infanzia e dal tuo arrivo in Italia?

Sono arrivata nell’89 con mio papà, mia mamma e mia sorella maggiore. Anche se purtroppo ho fatto moltissime assenze, i ricordi più belli sono legati alla scuola. Alle maestre, per esempio, che mi hanno aiutata ad imparare l’italiano. Per quanto riguarda casa, invece, purtroppo mio padre si è sempre comportato come un padre e marito-padrone. Costringeva mia madre a mettere il velo e anche mia sorella più grande. Poi è iniziato il mio turno, a 10/11 anni. Vivevamo a Pavia e mio padre è stato chiamato dal direttore, perché io ero ancora piccola. Piangevo sempre, ero timida, indottrinata a non guardare i maschi e così via. E il dirigente scolastico ha pensato che avessi un problema di depressione. Per tutta risposta, mio padre mi ha ritirata da scuola. Quando gli venivano dette queste cose, lui ci ritirava. Ci picchiava anche… Non mi dimenticherò mai un giorno in cui mia sorella, vedendo mia mamma massacrata di botte, con il sangue che le usciva dal naso, ha urlato e si è ribellata. Solo per aver chiesto a una vicina di chiamare l’ambulanza, mio padre le ha spaccato una chiave inglese in testa, mentre teneva me e mia madre, legate con delle corde, in vasche piene di letame (di quelle che ci sono delle cascine in campagna). Al mattino, dopo averlo tanto pregato, mio padre si è deciso a portare mia sorella all’ospedale, dove dice che mia sorella è caduta col motorino.

Arriviamo a quella maledetta sera. Vivevamo a Settimo Milanese, mia sorella era sposata e io avevo 14 anni e facevo la seconda superiore, perito aziendale corrispondente in lingue estere. Gli ultimi giorni con mia madre, bellissimi perché lei c’era ancora, avevamo fatto il doppione delle chiavi di casa per uscire a comprare materiale per la scuola. Lui (Dalal fatica a chiamarlo “padre” e ancora di più “papà”) ci chiude in casa come ha sempre fatto. Il giorno prima, mia mamma gli aveva detto di essere stanca di subire tutte quelle violenze, tra cui non mancava il sequestro dei documenti di tutte e tre. Io le chiedevo perché continuasse e di scappare, ma lui ci aveva messo in testa che in qualunque posto, anche sottoterra, ci avrebbe trovate.Noi avevamo chiesto tante volte aiuto alla polizia, ma tutte le volte dicevano che finché non c’era sangue, loro non potevano fare nulla. Mia mamma, alla fine, era riuscita a dirgli che voleva il divorzio. Voleva tornare in Marocco e vedere sua mamma, che non vedeva da una vita. Io non ho mai conosciuto mia nonna. La sera successiva mio padre mi ha chiesto di telefonare ai titolari sia suo che di mia mamma, per dire che entrambi erano malati e che il giorno dopo non sarebbero potuti andare al lavoro. Poi ha indossato i pantaloni della tuta, come faceva sempre quando doveva fare qualcosa di terribile, e si è chiuso in camera da letto con mia mamma, dove lei mi aveva detto di non entrare assolutamente, se avessi sentito urlare. Nella notte ho sentito quell’urlo di mia madre…Poi lui mi fa andare a vederla: a vedere quello che le aveva fatto, dicendo che se lo meritava. Lui aveva premeditato tutto, prima e dopo. La cosa che mi fa stare ancora peggio, è stato sapere dall’autopsia che mia mamma era ancora viva: la sua vita non sarebbe stata più la stessa, ma avrebbe potuto essere salvata. Dopo un viaggio di tre giorni con una macchina intestata a lei, arriviamo ad Algesiras, che collega la Spagna col Marocco. Mio padre paga la dogana alla gendarmeria marocchina. Si è costituito, dicendo però che lui aveva “solo” dato una coltellata a mia mamma, non che l’aveva uccisa, ed è stato rimandato a casa con una pacca sulla spalla. Non è stato arrestato.

Ci sono novità sul delitto?

No, ad oggi lui non ha pagato il suo reato. Noi parenti delle vittime non siamo figli né dello Stato marocchino né dello Stato italiano. Mia mamma non ha avuto giustizia da nessuna parte, mentre lui vive ad Agadir. Lui che mi ha anche venduta in sposa per 20 milioni di lire: sono stata una sposa bambina. La famiglia del mio ex marito è venuta a cercarmi qui in Italia, dove viveva, e io sono stata costretta a sposarmi. Grazie ai parenti che ha in Italia, è riuscito a sapere che qui è partito il processo internazionale contro di lui. Era il 2017. Allora hanno cominciato ad arrivarmi strane telefonate dall’estero e messaggi minatori dal Marocco invitati da numeri sconosciuti. C’erano anche dei video terribili. Poi si è scoperto che è stata sua sorella, mia zia, a mandarmeli. Da allora il mio telefono è sotto controllo. Quello che mi fa più male, è che per alcuni, mia madre sia morta perché non ha rispettato le regole di suo marito. Invece ha sempre obbedito, si è sempre piegata a quello che lui ha voluto. Non tollero che si dica che mia mamma è morta perché se l’è cercata e perché è stata trovata con un altro, come effettivamente è stato detto: non è vero! L’ultima novità, quando siamo andati in Corte d’Assise, era che il Regno del Marocco non rispondeva. A 18 anni avevo portato a testimoniare il console, all’epoca viceconsole, il quale, davanti ai servizi sociali di Settimo Milanese, aveva dichiarato che mio padre era detenuto ed era stato condannato a 33 anni in Marocco, dove tra l’altro era già pregiudicato per altri reati. Ma neanche questo era vero! Addirittura il console, come è emerso dall’Interpol, ha dichiarato che io ero testimone al processo, che non c’è mai stato! La Corte d’Assise ha richiamato il diplomatico per dire le stesse cose in tribunale, ma non si è mai presentato.

E su tuo figlio ci sono novità?

Purtroppo nessuna nemmeno su di lui, Anouar, avuto in Marocco durante quel matrimonio combinato, in cui dire che venivo umiliata, è dire poco. Per divorziare, mi hanno nascosto tutti i documenti, compreso l’estratto di nascita di mio figlio e ho dovuto pagare. Ho ottenuto l’affidamento del bambino, ma poi ho saputo che il mio ex marito l’aveva portato via, proprio il giorno che la mia ex suocera avrebbe dovuto farmelo rivedere. E pensare che il mio ex marito avrebbe potuto essere rintracciato: fa il tassista e in Marocco e per poter lavorare, ha bisogno di un timbro dai vigili ogni mattina. Mio figlio, invece, viene fatto sparire. Vado a protestare e dal tribunale mi viene detto che comunque non avrei potuto portarlo via! Non ho mai smesso di lottare, ma non ho più rivisto Anouar, che oggi ha 16 anni. Per vederlo via Skype, in quattro anni, avrò mandato 30 mila euro circa: dovevo pagare.

In tutti questi anni hai ricevuto degli aiuti?

Nessuno. Non sai quante volte siamo andate alla polizia a denunciare. Ma purtroppo ti dicono che, finché non c’è il sangue, non possono fare niente. Anche se hai delle amiche, non puoi certo dire che tuo padre ti picchia. Perché altrimenti intervengono i servizi sociali, i quali ti mettono a confronto con lui, che ovviamente nega. Quando siamo state a fare la denuncia per quello che ha fatto a mia sorella, ci hanno riportate a casa e l’hanno mandato a fare gli arresti domiciliari da noi.

So che fai volontariato per le donne maltrattate.

Mi divido tra volontariato e lavoro nel sociale. Sono diventata operatrice sociale e mediatrice in una cooperativa. Per il Comune di Milano gestisco lo Sportello per Donne Maltrattate. Ho gestito per un anno il Centro Milano Donna e mi occupo dell’integrazione delle donne arabe, per esempio facendo frequentare loro corsi di italiano. Poi sono volontaria presso una comunità di minori e mamma-bambino. Posso dire di aver fatto molte cose ed essere “cresciuta” molto negli ultimi anni.

Hai fatto anche attivismo politico…

Sì, mi sono candidata anni fa come consigliera comunale di Stefano Parisi (Milano Popolare), ma il fatto che io non abbia la cittadinanza, complica tutto. Mi sono anche candidata alle elezioni europee. In futuro chissà! Però, più che la politica, mi interessa l’aspetto sociale.

 Come vedi la situazione delle donne arabe in Italia?

Molto male, purtroppo, almeno finché non emanano leggi un po’ più severe, per esempio sullo stalking. È stato istituito il Codice Rosso, ma è inefficace, se la risposta è sempre la stessa: “Se non c’è il sangue non possiamo fare nulla”! Io non me la prendo con le Forze dell’Ordine, con le quali tra l’altro collaboro. Non c’è una legge, quindi non possono fare nulla! La vittima può essere dichiarata pazza o passare per carnefice e non si può nemmeno difendere. Oltretutto spesso non sa l’italiano. Ho seguito vicende allucinanti, come quella di una donna che aveva chiesto il divorzio al marito, come aveva fatto mia mamma, e lui, per vendicarsi, ha messo del vetro nel pane della loro bambina! Ovviamente la moglie l’ha accusato, ma lui ha detto che era pazza e l’ha fatta finire in psichiatria. Ancora, una ragazza pachistana di 18 anni è rimasta incinta dal fidanzato connazionale. Non hanno ancora firmato l’atto matrimoniale, con tutti drammi che ciò comporta. Lui le dice che avrebbe chiesto la sua mano al padre se fosse stata incinta di maschi, ma lei aspetta due gemelle. La ragazza, non sapendo che fare, dopo il parto le abbandona in ospedale. Torna a casa facendo finta di nulla; torna a lavorare come badante e colf, ma una volta finito, ha un’emorragia. La vicenda ci viene segnalata dal suo maestro del corso di italiano che frequenta alla sera. La ragazza torna in ospedale. Dato che una delle due bambine è morta, premettendo che la madre nascondeva la gravidanza e veniva picchiata quando era incinta, lei chiede di riavere con sé l’altra. Ovviamente non le viene data, perché l’aveva abbandonata. L’ospedale vuole che rimanga con la piccola dalla mattina alla sera, per avere un’altra possibilità da parte del giudice, ma lei deve anche lavorare. Perciò noi le passiamo lo stipendio e lei sta in ospedale con la bambina. Poi è stato emanato un decreto urgente di allontanamento a loro favore. La vicenda non si è ancora conclusa: la pratica è ancora in corso.

E in Marocco e nel mondo islamico? Ci sono delle speranze?

Non si può dire che non ci siano miglioramenti, soprattutto grazie ai social, a vari movimenti e alle attiviste, ma penso che lì come di fatto in Italia e in tutto il mondo, molte donne debbano purtroppo ancora morire, prima che qualcuno affronti veramente la situazione. Noi donne non siamo tutelate. Poi è chiaro che questi problemi siano più accentuati dove c’è l’integralismo islamico, ma ci sono pregiudizi maschilisti anche altrove. Se sei donna, magari straniera, e fai carriera, c’è sempre qualcuno, persino del tuo stesso sesso, che presume che sia stata con l’uomo potente. È giusto che noi donne ci uniamo per rivendicare i nostri diritti. Comunque, per quanto riguarda il Marocco, in televisione si parla di più di donne maltrattate: il problema fa più rumore rispetto al passato. Re Mohammed VI, poi, è veramente un uomo in gamba, tanto che gli integralisti lo odiano. Con la riforma della Mudawwana, il Codice di Famiglia, ha disposto che la prima moglie dovesse dare permesso al marito, per sposarne un’altra. Solo grazie a lui, gli orfani oggi possono avere un cognome, anche della madre, e andare a scuola. Non sono più bambini invisibili. Ci sono delle speranze, sì.

Cosa ti auguri per te e per le donne arabe e musulmane, quindi?

Per me mi auguro sempre che mio padre, che mi ha rovinato la vita, venga condannato. Vorrei che lo Stato marocchino mi desse una risposta sulla morte di mia mamma, ma anche per il dolore mio e di mia sorella. Parlo del Marocco, perché come ho già detto, non sono cittadina italiana, dopo tutti questi anni. Per fare la domanda, dovrei prendere il mio atto di nascita, che però si trova ad Agadir, dov’è mio padre. Io sono stata affidata da quando avevo 16 anni al Comune di Settimo Milanese, dopo tutto quello che è successo, ma ancora niente cittadinanza. Eppure avrei diritto ad acquisirla, a maggior ragione perché ce la fanno cani e porci! I problemi sono burocratici: come già detto ti viene chiesto l’estratto di nascita originale e la fedina penale nel tuo Paese d’origine. Io sono in Italia da quando avevo 3 anni: come faccio avere la fedina penale del Marocco, dove non ho neanche la residenza? Per quanto riguarda l’estratto di nascita, tra l’altro non può essere scaduto da tre mesi. Difficoltà di questo genere non sono giuste, soprattutto se si parla di donne maltrattate. Visto che non possono chiedere i danni morali, almeno dovrebbero essere riconosciute dallo Stato italiano. Per quanto mi riguarda, però, non importa: le uniche cose che voglio davvero, sono la condanna di mio padre e riavere mio figlio. Per me e molte altre donne arabe mi auguro “semplicemente” la libertà, che non ha prezzo. Libertà dai pregiudizi e di dar voce al dolore, senza vergognarci. Mi sono vergognata anch’io a suo tempo: ora basta. Oggi è già come se fossi rinata.

Per le donne maltrattate di origine straniera, è anche difficile ottenere il premesso di soggiorno. Perché?

Ancora una volta per motivi burocratici. Perché per esempio, se hai necessità di rifare il passaporto devi tornare nel Paese d’origine. Stessa cosa per ottenere il divorzio … E il consolato non aiuta. In più per avere il permesso di soggiorno devi dimostrare di avere un reddito, ma se vieni chiusa in casa e non ti viene permesso di lavorare, come fai?

Quindi che consiglio daresti alle donne che vogliono emanciparsi?

Di parlare, ribellarsi e non avere paura nemmeno di essere abbandonate dalla famiglia, perché la famiglia può essere anche una persona amica, una vicina di casa.

di Alessandra Boga

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