Souad Sbai: “La voglia di conoscere e di sapere deve essere alla base di qualsiasi democrazia”

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Souad Sbai - CRI
Souad Sbai: “La voglia di conoscere e di sapere deve essere alla base di qualsiasi democrazia” – Al Corso di Alta formazione della Croce Rossa Italiana, la giornalista parla di integrazione ed impegno. “Al Maghrebiya”, il giornale che fondò, fu un vero e proprio canale di comunicazione con la cultura musulmana, che permise di aiutare molte persone in difficoltà, soprattutto donne.
Souad Sbai CRI
Aiutare, con neutralità, senza limiti o barriere di alcun tipo, con l’impegno di sostenere sempre chi ha bisogno. Il messaggio trasmesso da Henry Dunant e divenuto poi simbolo dell’impegno dei Volontari di Croce Rossa, è stato alla base del discorso che oggi Souad Sbai, giornalista e Presidente dell’Associazione Acmid-Donna Onlus, ha rivolto ai vertici regionali della CRI, nel suo intervento al “Corso di Alta specializzazione in Advocacy Legislativa”.
L’integrazione deve essere garantita con un impegno duplice, sia da parte di chi chiede di essere inserito in un contesto socio-culturale e sia dal Paese che accoglie. Aprire le braccia non è sufficiente perché per aiutare bisogna comprendere cosa c’è dall’altra parte e, soprattutto, bisogna fare in modo che le condizioni offerte siano tali da consentire l’integrazione.
La voglia di imparare la lingua deve rappresentare per chi arriva una conditio sine qua non. Accogliere e aiutare con dei mediatori chi è appena arrivato ha senso, “purché chi arriva abbia la volontà di rendersi autonomo, almeno parzialmente, dal punto di vista del linguaggio, perché è attraverso quel linguaggio che ci si può relazionare con gli altri, spiegare le proprie difficoltà, dire di che cosa si ha bisogno”, ha spiegato.
Quando i social ancora non c’erano, quando la cultura musulmana era ancora un mistero (anche se a dirla tutta ancora oggi per molti lo è, ndr), Souad Sbai fondò un giornale cartaceo, interamente in lingua araba, chiamato “Al Maghrebiya” che si rivelò un valido aiuto a sostegno della popolazione di cultura musulmana. È stato il suo modo di parlare con le persone uno strumento grazie al quale molte cose sono state fatte… “Mi sono trovata in Italia con donne, bambine infibulate, perché l’imam aveva detto di farlo. Li è stato importante il rapporto con i Paesi, con Marocco, Tunisia, Egitto e tanti altri. Abbiamo trasmesso la verità, ovvero che l’infibulazione non aveva nulla a che fare con la religione ma era parte di un processo di radicalizzazione che la comunità stava subendo. Informare le persone che hanno dei diritti. Questo è stato importante. Arrivare alle persone”.
Ho tradotto il libro “Ostaggi dell’integralismo. Risposte alle fatwe wahabite e al pensiero radicale terroristico” dell’imam Mustapha Rashed   sulla questione della radicalizzazione”, ha ribadito.
E ancora l’impegno a favore delle donne. “Ne abbiamo fatte uscire di casa molte; quel giornale ha salvato tra le tante donne Amal, venuta col marito in Italia, che, proprio da quando era arrivata nel nostro Paese, era rimasta chiusa in casa. Il fratello ci contattò tramite quel giornale e, attraverso una signora, vicina di casa, riuscimmo ad intervenire”. E poi il lavoro fatto sulle donne uccise, una su tutte, Rachida. “Dopo 55 giorni in obitorio, quel corpo non lo voleva nessuno. Non lo voleva la comunità italiana, che aveva paura, solo perché lei aveva fatto l’errore di andare a pregare in una chiesa. Attenzione: pregare in chiesa non è reato. Per i radicali, gli estremisti, è diventato motivo di una uccisione: è stata uccisa perché il marito si diceva umiliato da quell’atteggiamento. Come associazione abbiamo dato una degna sepoltura a quella donna, l’abbiamo seguita fino alla fine, fino a quando il processo è arrivato alla Cassazione. I giornali ne hanno parlato nei primi giorni, poi no, come per tante altre”.
A.C.

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