Quelle spose della jihad che minacciano l’Italia

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burqa velo violenza - afghanista

Sono donne, spesso giovani, vivono nel nostro Paese ma hanno abbracciato la cultura della morte della jihad. Come la 45enne di Sarno appena finita davanti ai giudici che costruiva ordigni artigianali, scriveva ingiurie e minacce contro i politici sui muri della città e sventolava in pubblico la bandiera nera dello Stato Islamico. Ci sono le ragazze che dicono di essere pentite, di aver subito il “brainwashing”, il lavaggio del cervello dei reclutatori jihadisti in cerca di prede sul web. Raccontano di essere state spinte a lasciare la loro vita di tutti i giorni per correre a rifugiarsi sotto le insegne del Califfato, anche se adesso c’è chi spera di tornare in Italia perché intanto è finita prigioniera dei combattenti curdi. E poi ci sono le “foreign fighters” totalmente imbevute di ideologia islamista, le latitanti come Fatima, condannata nel giugno scorso a 9 anni in corte di appello per terrorismo internazionale, che non si sa che fine abbia fatto insieme alla sua famiglia.

Le donne dell’Isis, le spose della Jihad, sono un pericolo terribile per la nostra democrazia. Da quando il Califfato ha iniziato a perdere terreno tra Siria e Iraq sarebbero centinaia le donne che cercano di raggiungere l’Europa tornando nei Paesi dove vivevano prima di abbracciare la folle idea della Guerra Santa. Sulla strada del ritorno si fermano con i loro figli in qualche campo profughi o per i rifugiati – a lanciare l’allarme è stato il Washington Post – perché è più facile nascondersi se sei una madre con un bambino accanto. Insomma, ci sono donne che semplicemente scappano da quell’incubo e che forse hanno capito il gravissimo errore commesso, ma non sappiamo con precisione quante sono quelle che dopo aver sposato il martirio restano fedeli a una visione oltranzista e radicale dell’islam, ai loro obiettivi sanguinari, cercando di entrare in Europa per tessere la loro tela.

In Italia abbiamo quindi un doppio e drammatico problema. Sapevamo che le seconde generazioni di immigrati rischiano di finire nella reti della propaganda dell’Isis e del fondamentalismo. Ma c’è il rischio concreto che le “Lady Jihad” fuggite dalla ridotta del Califfato riescano a mimetizzarsi nelle nostre città, educando i propri figli a una idea distorta e malata della fede. Lo Stato italiano ha quindi davanti a sé un compito difficile quanto imprescindibile. Da una parte bisogna contrastare l’eversione che si annida nella immigrazione illegale, e dobbiamo dare atto alla nostra intelligence e alle forze dell’ordine per gli sforzi fatti sul piano della prevenzione e della repressione del terrorismo in tutti questi anni. Dall’altra è compito della politica costruire percorsi virtuosi di integrazione che attraverso lo studio dell’italiano, il rispetto della Costituzione, il giuramento di fedeltà alle nostre leggi e alle istituzioni dello stato, permettano di distinguere tra chi accetta le regole e chi vuole sovvertirle. Da questo punto di vista, sicurezza e integrazione sono una cosa sola e devono camminare di pari passo.

Di Souad Sbai per L’Opinione delle Libertà

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