Avevano intervistato telefonicamente la Senatrice Paola Binetti in merito al suo ultimo libro dedicato alla disabilità. Oggi ci ha rilasciato un’intervista in qualità di membro dell’Osservatorio sulle donne afgane della Commissione dei diritti umani di Palazzo Madama.
D. “Come vi state muovendo a livello istituzionale”?
R. “Noi ci stiamo muovendo per quanto è di nostra competenza, sollevando soprattutto l’attenzione a livello governativo su due aspetti molto concreti: uno è quello che riguarda la tutela e la difesa dei diritti umani (una questione di principio); l’altro è operativo, per vedere tutte le iniziative che possono garantire (le faccio tre esempi), alle studentesse di poter continuare i loro studi; alle sportive di continuare a fare sport (adesso le afgane giocano per cosiddire sotto la “tutela” della bandiera italiana, cioè l’Italia offre loro una sorta di garanzia) e là dove è possibile, attiviamo tutte quelle che sono le risorse umane dell’accoglienza attraverso vari organismi internazionali tipo la Caritas e alcune ong che specificatamente hanno fatto della difesa delle donne afgane un punto di riferimento importante. Per fare questo, come Parlamento stiamo facendo in modo che quotidianamente una persona diversa, senatrice o deputata, mantenga desta con un messaggio l’attenzione sull’argomento attraverso i social. In questi casi è facile far nascere l’interesse; ma poi a un certo punto l’interesse decade facilmente, se non c’è nessuno qualcuno che se ne fa interprete … Perciò noi manteniamo alto l’impegno che ci siamo prese. Ogni giorno ricevo anche personalmente questo messaggio, che mi aiuta a rendermi conto di come stanno andando le cose. Da gennaio ho lanciato questa ‘maratona’ per le donne afgane. Ce la stiamo facendo.
Poi, altra cosa che facciamo, tutti i martedì, nell’aula del Parlamento, una persona a rotazione si alza ed esplicitamente ricorda il diritto di queste donne ad avere tutta l’attenzione e tutta la solidarietà internazionale che meritano.”
D. “A che punto sono i tentativi di far arrivare in Italia le 82 studentesse afgane di cui si è tanto parlato i mesi scorsi?”
R. “Da questo punto di vista la collaborazione è molto stretta per esempio con l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dove alcune di queste donne stanno portando avanti i loro studi. Ce ne sono anche a Padova. … Noi abbiamo cercato diverse università italiane anche in base all’ambito di interesse delle studentesse. Siamo una goccia nel mare, ma il nostro è un impegno non dissimile da quello che ci siamo presi per Patrick Zaki (solo che in questo caso è per una persona sola).
Il nostro è un lavoro di accompagnamento, di assecondamento, in modo che una si senta a proprio agio e ‘trattata come una persona’. Le devono essere riconosciuti i suoi diritti prima di tutto di sopravvivenza, ma anche di realizzazione. In questi 20 anni di pace che c’erano stati in Afghanistan, abbiamo visto come molte donne avessero maturato livelli di competenza molto alti: c’erano avvocate che si occupavano per esempio di spose bambine e donne che avevano compiuto studi medicina e infermeria e collaboravano direttamente con Medici Senza Frontiere nei grossi ospedali di Medicina Materna e Infantile. Loro stesse erano diventate elementi importanti di questo ‘fenomeno di cambiamento’ del loro Paese.
Qui il nostro desiderio forte è che queste persone coltivino la loro personalità, la loro individualità e la loro cultura, in un clima che poi possa permettere un ritorno nelle loro terre. L’idea non è quella di avere una ‘forzata assimilazione ai modelli culturali italiani’; ma piuttosto di aiutare le donne afgane a capire l’importanza di ampliare i loro orizzonti e confini, perché poi loro sentano comunque il sacrosanto orgoglio di poter tornare e cambiare le cose in patria. Non dovrebbero sentirsi ‘afgane naturalizzate italiane’; ma afgane che sono in Italia per formarsi e acquisire conoscenze … Come quando si fa la famosa ‘resistenza’ in un Paese diverso dal proprio, ma nella prospettiva di poter tornare a vivere lì.”
D. “Per quanto riguarda il fenomeno che Lei ha accennato dei matrimoni precoci: come state cercando di contrastarlo?”
R. “All’inizio di questa legislatura la Commissione dei Diritti Umani del Senato (lo ricordo perfettamente, perché sono stata io stessa relatrice) aveva presentato una mozione importante: da una parte ovviamente denunciava il fatto e raccoglieva tutti i dati relativi alla gravità di questa situazione; però soprattutto sottolineava che anche nelle agenzie internazionali si dovesse tenere conto di ciò come riscatto di questa tematica ovviamente delicata che è il rispetto dei diritti umani. Ad esempio nel ministero degli Esteri c’è un ambasciatore che ha proprio questo ruolo del tutto particolare che è la tutela e la difesa dei diritti umani nelle relazioni internazionali. Quindi stando in contatto con lui, avevamo fatto presente come ci sembrasse utile nelle trattative con tutti questi Paesi, mantenere sempre viva la “questione del femminile” anche a garanzia di un’autentica liberazione delle donne. In concreto, per quanto riguarda le spose bambine, rimandare il matrimonio al momento in cui si è fisiologicamente e psicologicamente più mature.
Altrimenti possono esserci gravissime conseguenze anche in termini di salute (parliamo di mortalità), non solo del bambino ma anche della madre. Inoltre, ovviamente, il matrimonio è una questione di libertà di scelta come prevede la stessa Convenzione dei Diritti Umani.”
D. Di quali altri drammi delle donne afgane vi state occupando?
R. Ci occupiamo anche (ma questa è una ricchezza già consolidata del sistema sanitario nazionale) di garantire che queste donne possano accedere a tutte le strutture sanitarie italiane, per ricevere l’aiuto e l’assistenza di cui hanno bisogno.”