Povertà e indifferenza in una società che rischia il decadimento umano e culturale
Di Francesco Barone – Ambasciatore di pace
Un mondo in cui tutti devono competere gli uni con gli altri e un mondo in cui aumenta il divario tra ricchi e poveri è un mondo felice? No. Non è un mondo felice. Lo è per il 20% delle persone che vive nell’abbondanza e nel lusso, ma non lo è per il restante 80% costretto a vivere in condizioni di povertà. Un mondo costruito sull’individualismo e sull’egoismo genera inevitabilmente una conseguenza: una grande soddisfazione per pochi e una grande infelicità per molti. La globalizzazione è anche questo, la brutalizzazione delle condizioni delle donne e degli uomini considerati come merce di scambio.
E’ peculiarità del nostro tempo la vertiginosa incertezza, segnata dal fascino di idoli effimeri e instabili e dal rifiuto dei valori universali. Se dovessero chiederci cosa ci interessa maggiormente per la nostra felicità, quasi sicuramente risponderemo: la salute, il bene dei nostri figli e il lavoro. Ma non è forse anche il lavoro, la salute e il bene dei figli degli altri che ci assicurano maggiore garanzia verso una felicità collettiva? A pensarci bene, questa seconda possibilità o ipotesi non solo genera felicità, dona senso e responsabilità al nostro cammino esistenziale e alla realizzazione di una rinnovata dimensione umana. Oggi lo schema dominante è quello della cosiddetta economia di mercato, questo modello è associato al capitalismo, come forma di gestione dell’economia e del liberalismo. L’obiettivo rimane quello di
massimizzare i profitti e il soddisfacimento esclusivo dei propri bisogni. E mentre per convenienza di pochi, si continuano a spostare da una parte all’altra della terra grandi quantità di capitali finanziari, milioni di persone sono costrette a spostarsi da una zona all’altra del pianeta. Non certo per divertimento. Fuggono a causa delle guerre, violenze, carestie, povertà.
Si può ancora restare sorpresi se circa tre miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno e se quaranta persone dispongono della ricchezza equivalente a quella di tre miliardi di persone? Se le persone hanno il diritto di cambiare la propria residenza con l’intento di pagare meno tasse, si deve riconoscere anche il diritto di chi si sposta per salvare la propria vita e quella dei propri figli. Estraniarci dallo “straniero”, significa rifugiarsi in una roccaforte all’interno della quale tutti i problemi degli altri non devono riguardarci, perché abbiamo timore di naufragare assistendo ai loro naufragi. Quei “noi” di bambini, donne e uomini, vengono spesso percepiti come principale causa dei nostri problemi. La deriva soggettivistica cui stiamo andando incontro, rischia di rovesciare la barca sulla quale tutti stiamo navigando. Quando la
vita è degradata per fame e miseria, non c’è da stupirsi se un essere umano provi a sfidare il mare per andare a vivere da ex colonizzato in un’Europa di ex colonizzatori. Persino Immanuel kant in “La pace perpetua”, affermava che nessuno ha originariamente più diritto di un altro di abitare una località del mondo.
Di questo passo si rischia di costruire un modello di società caratterizzato da scambi culturali a “chilometro zero”.