Lo smartphone riduce il quoziente intellettivo e limita la produttività

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Lo smartphone riduce il quoziente intellettivo e limita la produttività – Lo sostiene lo psicologo del lavoro Tomas Chamorro-Premuzic, che parla anche dell’approccio all’impiego della generazione Z, del narcisismo generato dagli algoritmi dei social e delle sfide poste dall’intelligenza artificiale.

Lo smartphone riduce il quoziente intellettivo (QI) e limita la produttività: lo sostiene lo psicologo del lavoro Tomas Chamorro-Premuzic, che parla anche dell’approccio all’impiego della generazione Z, del narcisismo generato dagli algoritmi dei social e delle sfide in generale poste dall’intelligenza artificiale.

«A causa delle continue distrazioni, perdiamo la capacità di concentrarci su una cosa per un periodo di tempo un po’ lungo», afferma il professore di psicologia economica a Londra e alla Columbia University di New York in un’intervista pubblicata oggi dalla Neue Zürcher Zeitung (NZZ). «Questo interferisce con l’impiego. Nei sondaggi il 70% dei lavoratori dichiara di essere distratto dallo smartphone. Si viene costantemente distolti dall’attività in corso, saltando avanti e indietro. Le nostre capacità mentali si riducono di dieci punti di QI. Il 60-85% dell’uso dello smartphone avviene durante l’orario di lavoro».

«Da quando è stato lanciato il primo iPhone nel 2008 e le piattaforme dei social media hanno preso piede, la crescita della produttività è rimasta stagnante», prosegue l’autore di diversi libri nel suo campo d’indagine. «Oggi sull’arco di una vita passiamo 21 anni davanti a uno schermo e 7,5 anni sui social media. Questo non è un bene per la produttività».

«Forse è così che vogliamo vivere», osserva peraltro l’esperto, aggiungendo che «l’ostilità verso la tecnologia non è la risposta». Aiutano invece, a suo avviso, l’autocontrollo e l’igiene digitale, così come la ricerca attiva di attività interessanti nel mondo reale e nel frattempo dimenticato. È peraltro già in atto anche un movimento di controtendenza al digitale. «Gli organizzatori di concerti dal vivo o i ristoranti sono riusciti ad aumentare i prezzi in modo sproporzionato. Una visita al ristorante non può essere digitalizzata, un concerto dal vivo non può essere vissuto con Zoom. È proprio questa consapevolezza che protegge alcune professioni».

A essere particolarmente distratti – chiede la giornalista della NZZ – sono i giovanissimi o tutti quanti? «Non sappiamo se sia un problema generazionale o di età: i 60enni di oggi non avevano Tiktok quando avevano 15 anni. Al momento, la generazione Z sembra essere più distratta. Tuttavia, ci sono grandi differenze all’interno di ogni generazione: una nonna può essere dipendente dal web, mentre un ventenne può averlo perfettamente sotto controllo».

Vero è che l’era dell’intelligenza artificiale (IA) rende più narcisisti. «Se al lavoro si parla ininterrottamente di se stessi, spiegando quanto si è straordinari e che cosa ha mangiato il gatto per colazione, si viene rapidamente riportati a terra dai commenti distaccati colleghi. Questo contrasta il narcisismo. Nel mondo digitale invece gli algoritmi sono progettati per aumentare la nostra autostima. Ci danno un feedback irrealisticamente positivo. Sui social media, si viene premiati se ci si mette in mostra. Si ottiene uno status più elevato come influencer».

Intanto molti dirigenti aziendali temono che i loro dipendenti in telelavoro divaghino troppo. «Chi non vuole lavorare in home office va a correre, ma chi non vuole lavorare in ufficio naviga su internet», puntualizza Chamorro-Premuzic. «Il potere disciplinare dell’ufficio è sopravvalutato. Purtroppo, la pressione di molte aziende deriva dal fatto che i manager non sono molto bravi a valutare il rendimento e la produttività dei loro collaboratori: per questo motivo, si concentrano troppo sugli input, cioè sulle ore trascorse in ufficio».

«Ciò che spesso si dimentica: per molti capi la semplice presenza dei loro subordinati è positiva», continua lo specialista nato in Argentina. «Ma forse il capo si trova in ufficio perché è stato mandato fuori casa dalla moglie al mattino: se l’ufficio è deserto è facile che abbia la sensazione che nessuno gli voglia bene, se invece passa davanti a dieci persone che fingono di essere altamente produttive può sentirsi un capo fantastico». Secondo il 47enne «bisogna rendersi conto che l’ufficio diventa un luogo di incontro sociale in cui le persone non vanno per lavorare: la gente va per incontrarsi».

E come si misurano allora le prestazioni? «Soprattutto con dipendenti altamente qualificati, è difficile misurarle in modo oggettivo», risponde l’esperto che è anche Chief Innovation Officer presso Manpower. «Prendiamo un presidente della direzione: come si fa a misurare la sua partecipazione al successo dell’azienda? Con un autista Uber, invece, funziona molto bene. Fondamentalmente, più soldi si guadagnano, più è difficile determinare il reale valore del proprio contributo individuale».

C’è inoltre il tema del senso del lavoro. «I giovani di oggi si licenziano quando si rendono conto che un’azienda non rispetta i loro valori. La realtà è che le aziende non possono offrire la realizzazione a tutti. Indipendentemente dalla generazione, tutti vogliono un lavoro ben pagato, un orario di lavoro flessibile, un’azienda con dei valori, un’ottima vita sociale, essere il proprio capo, ferie illimitate, uno scooter aziendale… Di fatto, non ci sono molti lavori in grado di offrire tutto questo».

«Gli anziani sono spesso più realistici nelle loro aspettative, ma noi li discriminiamo», fa notare Chamorro-Premuzic. «Questo è legato a idee completamente sbagliate sul valore aggiunto delle persone. La discriminazione per età è molto diffusa».

Il professore universitario non esista anche ad affrontare un discorso di fondo. «È controproducente ossessionarsi con la propria felicità. Essere felici non è la norma, a meno che non si assumano farmaci e droghe: anche la tristezza e la malinconia hanno un valore», afferma. «In generale, ci aspettiamo troppo dal lavoro. Se avete un impiego che non fa parte di quelli ‘cult’ avete uno status basso, mentre se siete magari ‘chief insight officer per il me autentico’ in un’azienda cool questo aumenta enormemente la vostra autostima. Diventa tutto più facile quando ammettiamo con noi stessi che al lavoro facciamo innanzitutto un’attività e veniamo pagati per questo».

Che fare per reggere il confronto con l’automazione sul mercato del lavoro? «Le intelligenze artificiali agiscono in modo molto vincolato alle regole: ma una risposta corretta spesso non è né molto buona né molto innovativa», argomenta l’intervistato. «Gli esseri umani, invece, possono superare le vecchie regole con una vera competenza. La Chat-GPT è la versione intellettuale dell’industria del fast-food: la nostra opportunità come esseri umani è quella di diventare la versione intellettuale del movimento slow food».

«Ciò che è prevedibile può essere standardizzato e quindi automatizzato», spiega lo specialista. «Nelle attività automatizzate, l’uomo perde a favore della macchina. Google ha avuto un tale successo perché ci ha convinto di poter prevedere il comportamento dei consumatori. Allo stesso tempo, l’IA ha bisogno di noi più che mai. Più ci comportiamo in modo prevedibile, più l’intelligenza artificiale può trarre profitto da noi. Fortunatamente, gli esseri umani sono bravi a creare cose nuove. Pensiamo alla fotografia: da quando esiste, non ha avuto senso dipingere il più vicino possibile alla realtà, ma gli artisti hanno scoperto nuovi modi di espressione creativa», sottolinea Chamorro-Premuzic. «Ma l’innovazione e la creatività sono rischiose. Spesso ci ostacoliamo anche da soli: il tempo che risparmiamo grazie all’automazione spesso non viene utilizzato in modo creativo, al contrario, lo sprechiamo su Tiktok, YouTube o Facebook», conclude.

cdt

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