Gianna Gancia, imprenditrice del settore vinicolo fin dagli anni Novanta, nel 2019 è stata eletta eurodeputata per il gruppo Identità e Democrazia. In qualità di membro delle commissioni parlamentari per la Politica Economica (ECON) e per le Politiche Industriali e Tecnologiche (ITRE), oggi ci illustra la sua opinione sulle misure post-emergenza Covid-19 implementate dal governo italiano, fornendo spunti di riflessione su strategie alternative per contrastare la crisi.
A pochi giorni dall’inizio della fase 3, l’atmosfera che si respira in Italia non è certo improntata alla speranza di ripartenza ed alla fiducia nella ripresa economica. Onorevole Gancia, come giudica l’insieme delle misure varate dal Governo Conte per gestire la fase di post-emergenza, racchiuse in particolare nel Decreto Rilancio?
E’ ormai evidente che il lockdown causato dal Covid-19 ha avuto e avrà impatti devastanti sull’economia soprattutto italiana, non perché quest’ultima sia più debole rispetto a quella dei partners europei, ma in ragione del fatto che il nostro Paese è uno dei principali esportatori a livello mondiale, ed è perciò uno dei più esposti ai rischi connessi ad un crollo del reddito mondiale. L’emergenza sanitaria non è finita, quella economica sta soltanto iniziando. In una congiuntura come questa, provvedimenti emergenziali che mirino a “tirare avanti”, con un orizzonte di applicazione di massimo tre o quattro mesi, (e magari finalizzati a recuperare qualche voto) sono poco utili nel breve periodo, e dannosi nel lungo.
Il nostro Paese ha bisogno di un vero e proprio piano di salvataggio, che abbia il coraggio di mettere in pratica quello che nel dibattito politico italiano è praticamente un tabù: dare priorità di finanziamento ai creatori di ricchezza, che per definizione sono le imprese.
Una volta effettuate erogazioni pecuniarie di emergenza a favore dei più bisognosi, che permettano loro di fare fronte alle necessità più urgenti causate dalla pandemia, occorre implementare quelle che nella teoria economica si chiamano politiche dal lato dell’offerta. Fanno parte di questa categoria innanzitutto le politiche finalizzate a incrementare la produttività, per esempio misure miranti a diminuire il costo del finanziamento delle imprese, in modo che queste possano accumulare capitale fisico, cioè acquistare macchinari sempre più sofisticati.
Anche la riduzione delle imposte sulle imprese può incentivare la ripresa della produzione. Per fare un esempio, è ovviamente insufficiente cancellare il saldo IRAP per il 2019 e il primo acconto per il 2020, come ha fatto il governo Conte nel nuovo decreto. E’ l’essenza di quest’imposta ad essere profondamente inefficiente, perché non fa che disincentivare la produzione di reddito da attività produttive, in un momento nel quale la ripresa della produzione è l’unico rimedio contro una recessione perfino peggiore di quella che ci ha colpiti dieci anni fa. Ovviamente, l’ideale sarebbe l’abolizione dell’IRAP, ma una riduzione dell’aliquota potrebbe avere già un impatto molto positivo sulla produzione.
Inoltre, la riduzione del cuneo fiscale permetterebbe di incentivare la produzione (o quanto meno, aiuterebbe a scongiurane il blocco): in aggiunta, ridurre la pressione fiscale in termini di ritenute IRPEF a carico dell’impresa avrebbe effetti benefici anche per i lavoratori, sia in termini di aumento dei consumi che di aumento delle prospettive occupazionali. Certo, ciò comporterebbe una riduzione del gettito fiscale percepito dallo Stato, ma ritengo che questa sia la strada più efficiente per favorire la ripresa.
Invece, il governo ha adottato un’altra linea, improntata al sostegno della domanda aggregata tramite i consumi, il che potrebbe non essere di per sé completamente negativo, ma non esprime secondo me grande lungimiranza, perché rischia di incoraggiare la spesa pubblica improduttiva. Un esempio lampante è il “bonus vacanze”: si tratta di un incentivo pensato per famiglie al di sotto di una certa soglia di reddito a passare le vacanze in Italia, in modo da poter sostenere il comparto turistico sull’orlo del collasso. Al di là del fatto di essere subordinato all’accettazione da parte della struttura alberghiera, non è nemmeno erogato in denaro, ma sotto forma di sconto (per l’80%) e detrazione (per il 20%). Per di più, lo sconto non viene rimborsato in denaro all’albergatore, ma sotto forma di credito d’imposta, quindi nemmeno la struttura alberghiera avrà a disposizione denaro contante da poter reimpiegare. In pratica, l’albergatore vanterà un credito nei confronti dello Stato, che dovrebbe (forse) essergli rimborsato nel 2021.
Da ciò si deduce la natura totalmente miope di una misura che non solo privilegia un settore di per sé a bassa produttività come quello turistico, ma non è nemmeno in grado di iniettare una minima parte di quella liquidità necessaria per sostenere i consumi.
Perché parla di coraggio quando pensa a un piano come quello da lei esposto?
Perché non è un mistero che lo Stato abbia risorse limitate, anche in considerazione dei ben noti vincoli di bilancio sovranazionali cui il nostro Paese ha aderito. Non è quindi possibile soddisfare le esigenze di tutte le categorie sociali allo stesso tempo. Un governo che decida di privilegiare le imprese in una ipotetica manovra di rilancio del paese rischia di perdere il sostegno elettorale di un insieme di altre categorie, che almeno nel breve periodo non vedrebbero tutelati i loro interessi. E’ più semplice attirarsi le simpatie della popolazione con erogazioni di denaro a pioggia e sussidi improduttivi, nella speranza non di risolvere, ma di posticipare il problema, cosicché ricada sulle generazioni e sui governi futuri.
Non ritiene che l’insieme di proposte da lei appena elencato possa essere tacciato di ultraliberismo? Cosa risponderebbe a coloro che ritengono che l’attuale crisi, come d’altronde quella del 2008, sia stata causata dalle politiche di deregulation e liberalizzazione iniziate con i governi Reagan negli Stati Uniti e Thatcher nel Regno Unito?
Non si preoccupi, per come la vedo io, non c’è il rischio che la dottrina reaganiano-thatcherista abbia influenzato più di tanto il modo che ha lo Stato italiano di concepire l’imprenditore. Infatti, il nostro Paese ha da sempre adottato nei confronti degli imprenditori un atteggiamento di sospetto e sfiducia, partendo sostanzialmente dal presupposto di avere a che fare con degli evasori, una sorta di presunzione in malam partem che spetta al singolo imprenditore rovesciare. Mi spiego meglio con un caso pratico: in caso di verifica fiscale da parte degli organi preposti, ad esempio Agenzia delle Entrate, è sempre il contribuente a dover dimostrare, tramite ricorso, l’effettiva deducibilità dei costi da lui sostenuti, a fronte di un’autorità di controllo che invece procede preventivamente a tassare anche i costi che la legge considera deducibili. In pratica, nel diritto tributario la presunzione di innocenza del contribuente non esiste.
Specularmente, gli imprenditori sono invece sempre stati tenuti in grande considerazione ogniqualvolta lo Stato ha avuto bisogno di liquidità, come fonte privilegiata di entrate fiscali.
Le radici di questo sostanziale disinteresse per le esigenze delle imprese sono riconducibili probabilmente all’inizio degli anni Settanta, quando il dibattito politico venne monopolizzato dalla sinistra extraparlamentare, che impose ai governi deboli e condiscendenti dell’epoca un’agenda improntata esclusivamente alla tutela degli interessi del lavoratore dipendente, a scapito delle esigenze di crescita della produzione, di nuovi investimenti ed aumento della produttività. Il dettaglio di cui spesso ci si dimentica, è che fomentare la lotta di classe tra lavoratori e cosiddetti “padroni”, privilegiando esclusivamente una categoria a scapito dell’altra, è svantaggioso per tutti, perché indebolisce il tessuto produttivo del paese e riduce drasticamente le prospettive occupazionali.
Anche in Italia ci sono state pallide liberalizzazioni, specie negli anni Novanta, grazie all’impulso delle istituzioni europee, e si è tentato di avviare qualche forma di deregolamentazione. Ma in realtà si è trattato di interventi superficiali, che non hanno rivoluzionato nel profondo l’approccio dello Stato nei confronti delle imprese.
Quindi, per rispondere alla sua domanda, direi che la dottrina ultraliberista di matrice anglosassone non ci ha praticamente sfiorati, e quello di cui ha bisogno questo Paese è proprio una drastica implementazione di misure di stampo reaganiano-thatcherista.
A livello europeo, alcuni pensano che con lo scoppio della crisi, il perseguimento degli obiettivi di decarbonizzazione previsti dal Green New Deal non sia più una priorità. Altri ritengono che questa sia invece un’occasione unica per rilanciare l’economia europea. Qual è la posizione di Gianna Gancia al riguardo?
Sono fermamente convinta che la transizione verso la Green Economy rappresenti una grande occasione di rilancio dell’economia, e porterà importanti prospettive di sviluppo. Condivido le parole della Presidente della Commissione Von Der Leyen quando afferma che la transizione verde creerà nuovi posti di lavoro, e credo che il futuro dello sviluppo tecnologico europeo dovrà essere incentrato sul raggiungimento della neutralità climatica. Premesso questo, occorre tuttavia fare alcune precisazioni, che non vengono quasi mai portate all’attenzione dell’opinione pubblica perché potenzialmente controproducenti.
Primo, se da un lato è verissimo che la transizione verde creerà nuovi posti di lavoro, dall’altro bisogna sottolineare che le figure professionali richieste saranno tendenzialmente high-skilled, il che significa manodopera specializzata, formata soprattutto nelle materie STEM (cioè scienze, tecnologia, ingegneria, matematica). In più, la manodopera ricercata dovrà essere preferibilmente giovane, dovrà conoscere le lingue straniere ed essere disposta a spostarsi dal proprio paese d’origine per lavorare.
Inoltre, non è affatto detto che le opportunità di lavoro legate alla riconversione green sorgeranno uniformemente in tutti i paesi europei e, all’interno dei vari Stati, in tutte le regioni. Anzi, gli analisti ritengono che le nuove prospettive di impiego nasceranno principalmente intorno alle aree cosiddette core, cioè le grandi città centro-europee come ad esempio Berlino, Parigi, Bruxelles, Milano, che già oggi sono centri nevralgici dello sviluppo tecnologico e delle start-up innovative, in grado di sviluppare produzioni ad alto valore aggiunto.
L’Italia ha una delle popolazioni più anziane d’Europa, con un tasso di natalità addirittura negativo; secondo i dati ISTAT del 2018 solo un laureato su tre è specializzato in una disciplina STEM, a fronte di uno su due in Germania, Spagna e Francia. Inoltre, il report del 2019 dell’EF EPI (English Proficiency Index), indica che siamo al ventiseiesimo posto in Europa per padronanza dell’inglese. Non spenderò ulteriori parole sul ben noto divario tra le regioni core e quelle periferiche del nostro Paese. Viene da chiedersi se le decine di migliaia di persone che hanno riempito le piazze italiane durante i “Fridays for Future” siano a conoscenza di queste informazioni.
Fatta questa premessa, ritengo che la transizione verso la Green Economy sia inevitabile, ma ciò non significa affatto che la battaglia sia perduta per l’Italia. Occorre però che la società italiana prenda coscienza di questa situazione e che comprenda, in questo momento storico, la necessità di privilegiare i settori più produttivi e promettenti della nostra economia, anche a costo di sacrificarne altri e di lasciare il tessuto industriale italiano libero dai lacci burocratici che gli impediscono di abbracciare le nuove sfide tecnologiche.
Di Biancamaria Tarditi