Ricercatrice libica accusata di terrorismo e poi assolta: no al risarcimento per ingiusta detenzione

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Ricercatrice libica accusata di terrorismo e poi assolta: no al risarcimento per ingiusta detenzione – La decisione della Cassazione per Khadiga Shabbi, arrestata nel 2016 e rimasta in cella per 226 giorni. Dopo una condanna in primo grado per presunta propaganda jihadista è stata scagionata definitivamente. Per i giudici “i fatti sono stati accertati ma ritenuti non penalmente rilevanti, ebbe comunque un comportamento gravemente colposo”.

Era accusata di fare propaganda a favore dell’Isis e di istigazione a commettere reati di terrorismo, ma dopo una condanna a un anno e 8 mesi (pena sospesa) rimediata in primo grado con l’abbreviato, la ricercatrice libica Khadiga Shabbi, 50 anni, era stata poi del tutto scagionata in appello. Un’assoluzione diventata definitiva nel 2019. La donna aveva preannunciato la richiesta di un maxi risarcimento per l’ingiusta detenzione patita durante le indagini – in tutto era stata in carcere per 226 giorni – che ora, però, la Cassazione ha deciso di negarle, confermando la decisione della Corte d’Appello di marzo dell’anno scorso. Shabbi è stata invece condannata a pagare mille euro di spese di giudizio al ministero della Giustizia.

La decisione è della quarta sezione della Suprema Corte, presieduta da Salvatore Dovere, secondo cui non basta l’assoluzione e l’assenza di rilievo penale sancita per le condotte dell’imputata, ma – ai fini dell’eventuale riparazione per l’ingiusta detenzione – occorre valutare se Shabbi, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. E, come già sancito dalla Corte d’Appello, i giudici ritengono di sì perché furono proprio “il carattere violento e rabbioso delle comunicazioni” intrattenute dalla ricercatrice che “diede causa alla privazione della libertà personale”.

Il fermo non convalidato e il cacere disposto dalla Cassazione

La ricercatrice in Economia, in quel momento a Palermo da 3 anni, venne fermata il 16 dicembre del 2015 proprio perché attraverso telefonate e comunicazioni su Facebook si sarebbe messa a disposizione dell’organizzazione terroristica Ansar Al Sharia Lybia. Tra le altre cose, secondo la Procura, avrebbe avuto contatti con due foreign fighters e cercato di far venire in Italia un suo cugino, poi morto in Libia in uno scontro a fuoco, mandando denaro in Turchia. Il gip Fernando Sestito non convalidò il fermo e dispose non la custodia cautelare in carcere come richiesto dai pm, ma l’obbligo di dimora a Palermo. Furono il tribunale del Riesame e poi la stessa Cassazione a giugno del 2016 a stabilire invece che la donna doveva essere sottoposta alla custodia cautelare in carcere.

La condanna e poi l’assoluzione definitiva

Shabbi finì così in cella il 28 giugno del 2016 ci restò per 226 giorni, fino al 3 febbraio 2017, quando fu emessa la sentenza di condanna in primo grado, ma fu concessa la sospensione condizionale della pena. La ricercatrice – che sin dall’inizio aveva professato la sua innocenza – chiedeva di essere risarcita proprio per questo periodo trascorso in carcere. La sentenza di primo grado venne infatti ribaltata in appello.

La difesa: “Va risarcita se è stata scagionata”

La difesa di Shabbi ha sostenuto che la Corte d’Appello, negando la riparazione, avrebbe ignorato le sentenze di assoluzione e le loro motivazioni, attribuendo “un comportamento gravemente colposo” ad un comportamento la cui rilevanza penale era stata esclusa con sentenza definitiva. In particolare – come ha rimarcato l’avvocato della donna – è stata “esclusa la rilevanza pubblica delle comunicazioni addebitate all’imputata che erano invece ‘strettamente interpersonali’, non contenenti ‘materiali o testi apologetici nei riguardi dell’Isis’, ritenendole ‘epressioni di opinioni politiche o religiose'”. Non si può, quindi – questa è la tesi difensiva – attribuire rilevanza ai fini della riparazione a condotte escluse o ritenute non sufficientemente provate.

I giudici: “Le condotte sono state provate, ma ritenute non rilevanti penalmente”

Di ben altro avviso è la Cassazione, che ha ritenuto il ricorso infondato, rimarcando come il “giudizio per ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale”. E – si legge nella sentenza – “dimentica la difesa che il giudizio di cognizione ha escluso la rilevanza penale delle condotte ascritte a Shabbi, ma non ha escluso che quelle condotte fossero state compiute; al contrario, le ha ritenute provate e ha concluso che potessero avere rilevanza penale perché non erano concretamente idonee a provocare la commissione di delitti”.

“La ricorrente – scrive ancora la Cassazione – è stata definitivamente assolta dalle accuse” perché “l’attività comunicativa che le era stata contestata si era svolta, per lo più, in ambito interpersonale, le telefonate erano strettamente private e famigliari, la gran parte delle persone contattate via internet erano ben più radicalizzate di lei ed era lei a rivitalizzare la propria fede attraverso questi contatti, la diffusione di materiali della propaganda jihadista riguardava documenti disponibili sul web ed era limitata a contatti personali o si esauriva nell’apposizione di un like volto a manifestare adesione al contenuto del documento più che finalizzato alla sua diffusione, pertanto, difettavano sia la capacità diffusiva che la concreta idoneità a determinare la commissione di delitti. I fatti, dunque, non sono controversi e le sentenze di merito li hanno accertati. Ne consegue che quei fatti possono essere valutati dal giudice della riparazione e il ricorrente non coglie nel segno quando sostiene che l’ordinanza impugnata avrebbe attribuito rilievo a condotte escluse dal giudizio di merito”. Perché, appunto, è stata esclusa “solo la rilevanza penale delle condotte” che sono state però “ritenute sussistenti”.

“Condotta gravemente colposa, prevedibili gli effetti in un momento di crisi internazionale”

La Cassazione spiega meglio che nell’ordinanza della Corte d’Appello si parla di “comunicazioni telefoniche e telematiche tramite Facebook dai contenuti molto violenti (perché cariche di rabbia, odio, di propositi di vendetta e di estremismo politico-religioso di matrice islamica) e molto equivoci e pericolosi (per i delicati equilibri dell’ordine e della sicurezza pubblica), con la piena consapevolezza della loro stessa pericolosità (attestata dal tentativo dell’indagata di rendere più riservate alcune comunicazioni), peraltro, in un momento storico caratterizzato da una forte crisi degli equilibri tra Oriente e Occidente nel contesto geopolitico internazionle di cui era parte anche l’Italia”. E tutto questo “integra un comportamento gravemente colposo – dicono i giudici – perché Shabbi avrebbe dovuto considerare i ‘prevedibili effetti’ della sua condotta e avrebbe dovuto capire che ‘in un momento di crisi internazionale tra il mondo cirstiano e il mondo islamico’ avrebbe potuto, per quel comportamento, ‘diventare oggetto di indagini ed intercettazioni'”. Da qui il rigetto del ricorso e la condanna per la ricercatrice libica a pagare le spese di giudizio al ministero.

palermotoday

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