Intervista alla Senatrice Paola Binetti: lunedì 17 gennaio alle 17, presso la Sala degli Atti Parlamentari della Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” in Piazza della Minerva 38 a Roma, si terrà la presentazione del suo ultimo libro “Abili, disabili, ma tutti diversamente abili” (Edizioni “Magi”). La lunga intervista telefonica che l’esponente politica ci ha gentilmente concesso, riguarda proprio questo.
D. “Da che punto di vista ha affrontato il tema della disabilità nel Suo libro “’Abili, disabili, ma tutti diversamente abili’”?
R. “Ho affrontato il tema della disabilità da due punti di vista: sanitario e socio – sanitario. Il primo riguarda l’evoluzione che c’è stata nella cultura contemporanea della valutazione e della comprensione della realtà concreta in cui vivono le persone disabili, cercando di disegnare un itinerario che inizialmente poteva andare dalla protezione un po’ ‘separatista’ con cui venivano guardate le persone con gravi disabilità per cui o rimanevano in casa o venivano accolte in istituti o in quelle realtà composite che hanno alle loro spalle la testimonianza dei grandi santi del Novecento. Un’accoglienza che era protettiva, ma in qualche modo faceva anche da barriera. Successivamente, a metà del secolo scorso, è partita una grande operazione, invece, in cui al centro dell’attenzione c’è stato il bisogno da parte del mondo sanitario di capire che cos’è che aveva indotto quella disabilità: se c’era un profilo genetico, ambientale, legato a circostanze magari traumatiche … Che cos’è che aveva prodotto quella disabilità in termini ‘medicalizzati’ e quindi che cosa potesse e dovesse fare la medicina per queste persone. Era una visione che partiva sì dal bisogno di ‘proteggere’ queste persone, ma anche di capire cosa avesse determinato questo vulnus, questa ferita. Piano piano ci si è resi conto che avere un approccio esclusivamente sanitario, era una condizione necessaria, ma assolutamente insufficiente. Siamo passati a quello che è l’approccio socio – sanitario. Un approccio che peraltro viene colto bene anche dalla legge 104, in cui i bisogni dei pazienti vengono considerati in questo modo, quindi includono per esempio le iniziative per l’inclusione scolastica e il welfare sportivo (la possibilità di svolgere attività sportive o comunque di poter coltivare interessi personali). L’approccio socio – sanitario vero e proprio è stato determinante, perché ha cambiato la percezione di queste persone. Ha fatto capire agli altri che le persone con disabilità avevano in qualche modo bisogno di esprimere un potenziale di capacità e non solo di essere arroccate in diagnosi di incapacità. Era già nell’aria che si percepisse non solo di registrare che cosa queste persone non fossero capaci di fare, ma anche che cosa fossero in grado di fare, quali qualità avessero, come si potesse permettere loro di essere e di sentirsi utili alla società.
Quello che io chiamo il ‘quarto livello’ di questa prospettiva, è quello che è scaturito all’inizio degli Anni Duemila con la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. A questo punto ci si è resi conto che anche l’approccio socio – sanitario è un approccio decisamente insufficiente, per capire i bisogno di queste persone. Bisognava entrare nel vivo di quella che è la percezione dei loro diritti. E’ una cosa che ha bisogno del tempo, per maturare, ma già l’art. 3 della nostra Costituzione (quindi stiamo parlando di quasi 85 anni fa) stabilisce che non devono esserci distinzioni di alcun tipo. In qualche modo introduceva il discorso dell’abbattimento delle barriere architettoniche, la possibilità di frequentare la scuola e che per legge fosse previsto che potessero essere assunti, magari sotto il famoso termine delle categorie ‘protette’. Comunque la Convenzione Onu ha messo tutti noi davanti alla responsabilità che stessimo facendo una cosa buona. Perché queste persone avevano diritto a chiedere e a ottenere dalle istituzioni sia la rimozione degli ostacoli sia la predisposizione positiva di tutto ciò che era funzionale allo sviluppo dei loro talenti e delle loro capacità. Il libro, da un certo punto di vista ‘culturale’ parte da questo tipo di evoluzione: dalla consapevolezza che non ci si può limitare ad accogliere e a ‘trattar bene’ una persona con disabilità, ma bisogna preoccuparsi specificatamente di quella disabilità, di come la si può ridurre, di come la si può compensare, senza mai ridurre la persona alla sua disabilità, ma mantenendo uno sguardo più ampio su di lei, su tutti i suoi bisogni e necessità, per approdare poi al fatto che questo è un vero e proprio diritto, che vincola quindi come dovere tutte le istituzioni. Da questo punto di vista, recentemente c’è stata l’approvazione di due famose leggi: quella sulle malattie rare, che offre un grandissimo impulso alla ricerca, perché molto spesso la malattia rara può comportare una sorta di disabilità, e quella che possiamo chiamare la legge delega presentata dalla ministra Stefani (la quale interverrà alla presentazione, ndr), che partendo sempre dalla Convenzione Onu, intende operare quella che chiamiamo una ‘rivoluzione a 360 gradi’. In questo clima, però, ci sono altre osservazioni che riguardano le persone cosiddette ‘abili”; le persone che mai verrebbero, nell’arco della loro vita, diagnosticate come persone con disabilità. Il fatto è che gli anni passano, si diventa anziani e può subentrare la malattia (dal cancro, alle patologie che riguardano l’apparato neurologico, alla sclerosi multipla, alla SLA …). Gli anni possono comportare l’esperienza della disabilità anche per persone che prima mai erano state disabili. Emblematicamente l’anziano che vede o sente poco, che fatica a chinarsi, che non può guidare e che in qualche modo si imbatte ogni giorno nei limiti dell’età che avanza, è ‘disabilizzato’”.
D. “Il libro è uscito tra l’altro in un momento particolare: stava quasi per essere approvata la legge sulle malattie rare e della legge sulla disabilità, a trent’anni dalla legge 104/1992 …”
R. “Sì, è uscito a dicembre, il 15 dicembre 2021. La legge 104 è una buona legge, ribadisco. E’ una legge che ha offerto molti supporti alle persone con disabilità e soprattutto supporti concreti a quelle che se ne fanno carico (i famosi ‘care givers‘). Però certamente c’è bisogno di fare un salto di qualità nella percezione della disabilità, come ho detto prima.”
D. “Nel Suo libro ha fatto riferimento al ‘Capability Approach’: cosa s’intende?”
R. “Facciamo un esempio tipico: quello di una persona che abbia difficoltà a muovere gli arti inferiori. Se lavora al computer, ad un centralino e ha anche una casa all’interno della quale si può muovere con facilità, perché per come è fatta, è ‘a misura d’uomo’, secondo le sue esigenze (la senatrice mi fa esempi pratici, ndr), la persona non si rende nemmeno conto della sua disabilità. ‘Capability Approach’ significa pensare la persona in funzione dei suoi bisogni e dei suoi interessi ed evitare quell’impatto di cui una persona disabile deve prendere atto, quando nella relazione tra lei e l’ambiente la competenza in qualche modo è compromessa e la persona stessa non riesce a gestire la situazione in modo adeguato.
Le faccio un esempio banale: ci sono degli autobus in cui il gradino per salire è molto alto. Anche una anziana, una persona goffa o una ‘meno allenata’ , hanno difficoltà. Ci possono essere case che hanno l’ascensore, ma una persona disabile, per arrivare al portone deve salire scale che non è in grado di salire da sola. ‘Capability Approach‘ significa pensare a tempi e attività in modo tale che il soggetto, con le capacità di cui dispone, è in grado di assolvere tutti i compiti che gli vengono chiesti.”
D. “Cosa e quanto resta ancora da fare per l’inclusione dei disabili?”
R. “Restano da fare mille cose! Milioni di cose! E’ necessario svolgere un lavoro sulla mentalità. Nonostante quello che le ho detto, a volte c’è un dominio della mentalità un po’ pietistica, che come ho già detto, non permette a queste persone di sviluppare talenti e capacità. Lei sa che, per legge, ogni azienda che ha un certo numero di dipendenti, dovrebbe aver creato dei posti di lavoro per le cosiddette ‘categorie protette’. Ci sono molte aziende che preferiscono pagare una multa, piuttosto che fare spazio professionale alle persone disabili. Perciò ci servono approcci culturali generalizzati, approcci specifici nelle aziende e approcci culturali anche nelle scuole, perché la formazionione di una persona con disabilità (sensoriale, per esempio) impegna il tessuto sociale in cui quella persona è inserita, a rendere possibile per lei, muoversi, agire, fare con la stessa naturalezza degli altri. Un esempio sono le protesi invisibili per i non udenti; che non ci si accorge neanche che che le abbiano e che siano non udenti. E’ la logica delle mascherine trasparenti inventate quest’anno. Ogni giorno scopriamo i ‘microostacoli’ che ci sono e dobbiamo lavorare per rimuoverli.”
D. “Se la persona disabile è donna, la discriminazione aumenta?”
R. “Sì, per tanti motivi. Perché non possiamo pensare che non ci sia il famoso ‘gender gap’ e che nontocchi le persone con disabilità. Pensiamo a tutta quella cultura che rende difficile quello che chiamiamo ‘life balancement’, il ‘family – work’, cioè il bilanciamento tra famiglia e lavoro . E’ chiaro che per per queste persone diventa più difficile. La gestione richiede misure più attente.
Ci stiamo lavorando e vogliamo che con tenacia e determinazione non ci sia nemmeno sul piano della disabilità, un ostacolo che le donne possano percepire come una sorta di pregiudizio nei loro confronti. Una donna intelligente, motivata e determinata può fare come un uomo intelligente, motivato e determinato qualunque cosa, anche se nella sua vita ci possono essere delle difficoltà in più. Per esempio alla presentazione del libro lunedì ci sarà anche la collega parlamentare Giusy Versace, che ha avuto come conseguenza di un incidente l’amputazione delle gambe e quindi la necessità di usare delle protesi, che peraltro lei porta con un’eleganza e molto spesso con un buon umore e un’ironia veramente sorprendenti. Lei ha fatto di questa difficoltà la vocazione più importante della sua vita, perché in Parlamento si batte con tenacia e con determinazione per la tutela dei diritti delle persone con disabilità. Penso anche ad un’altra collega parlamentare, l’On. Lisa Noja, che a sua volta ha un tipo di disabilità, in questo caso una patologia genetica, ed è una persona di rara e di forte sensibilità sociale, che si sta battendo enormemente per la stessa causa. Qui ci troviamo di fronte a persone che fanno della loro difficoltà un punto positivo di provocazione per offrire ad altri strumenti e risorse che magari non hanno avuto. Pensi anche ai miracoli atleti parolimpici alle Olimpiadi di Tokyo quest’estate! Abbiamo visto mettere in gioco tutti i valori dello sport!”
D. “Come la pandemia condiziona la persona disabile?”
R. “Certamente in modi molto significativi. Faccio due o tre esempi: intanto la maggiore difficoltà ad uscire, ad incontrare gli altri , a stare in contatto con loro, a ‘proteggersi’. Poi dipende anche daltipo di disabilità e dalle sue ragioni. Penso per esempio ai bambini con disabilità obbligati alla Dad, che li priva della ricchezza del contatto con i loro compagni e quindi della capacità di apprendere per imitazione; penso anche alle difficoltà sul piano cognitivo che possono aver trovato, quando sono stati privati del supporto dell’insegnante di sostegno. Penso alle persone che devono fare lo smart -working: dipende dalle funzioni a cui erano preposti, quale ruolo svolgevano, ma certamente la pandemia ha complicato un bel po’ di più la loro vita.”
D. La parte conclusiva del libro, tratta il tema il rapporto disabilità e bioetica. Ce ne può parlare?
R. “La parte conclusiva del libro riguarda il rapporto disabilità e bioetica perché, per fare un esempio, l’ultima ‘logica’ e una delle grandi questi bioetiche che sta in questo momento prendendo piede anche alla Camera dei Deputati, è quella dell’eutanasia. E’un tema che molte volte esplode nella vita di una persona davanti all’esperienza di un dolore non controllabile attraverso i farmaci, ma anche davanti a forme di dipendenza che ti consegnano proprio all’aiuto e all’intervento di altri che ti stanno accanto. Tutti i casi che hanno fatto più notizia in questi ultimi anni, sono tutti casi che contestualmente rappresentavano anche un elevato grado di disabilità, quindi può subentrare l’idea che nella valutazione della vita di una persona e quindi nelle ragioni che ti spingono a desiderare di morire e che ti spingono addirittura a chiedere che qualcuno ti aiuti a morire (pensoal suicidio assistito, ma penso anche all’omicidio del consenziente), la pietas dettata dalla condizione di disabilità, possa giocare un ruolo molto importante. Allora si capisce come tutta l’azione di prevenzione che noi possiamo e dobbiamo fare e che comincia molto da lontano, si concentri su due aspetti importanti: come aiutare queste persone a ritrovare sempre un senso da dare alla propria vita; come aiutare nella nostra cultura e nella nostra civiltà a non coltivare come ideale e come obiettivo quello dell’autonomia e dell’indipendenza ad oltranza, ma acquisire la consapevolezza profonda che è nell’interdipendenza, che maturano valori come quelli della socialità, della solidarietà e della collaborazione. Tutto questo richiede una riflessione molto importante.”