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Senza velo se gli occhi delle donne possono cambiare l’Islam

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Nawal-el-saadawi
Foto: AFP

Nella fotografia che ho sotto gli occhi Huda Shaarawi ha un’espressione grave, in contrasto con il viso fresco, quasi da adolescente. Lo sguardo è fermo; i grandi occhi ben spalancati; il piglio risoluto è accentuato dalle labbra imbronciate; la fronte e le guance non sembrano mai state sfiorate dal sole dell’ Alto Egitto natale. Il volto è una miniatura imprigionata nel foulard nero che fa da cornice ovale e che cancella i capelli e il collo. In quella fotografia Huda non ha ancora quarantaquattro anni. L’ età di quando si tolse il velo in pubblico, nella stazione ferroviaria del Cairo. Accadde nel maggio del 1923. Ritornava dall’ Italia, dove aveva partecipato a un congresso femminile, e aveva passeggiato a viso scoperto per le strade di Roma. Sarebbe stato un’ ipocrisia, un atto di viltà, arrivando al Cairo, sottoporsi all’ obbligo del velo. E cosi se ne liberò, sfidando la sua società. Quel gesto non è rimasto soltanto un episodio del femminismo nel mondo musulmano. La condizione delle donne rivela il livello politico e sociale di un paese. Di tutti i paesi. Ai tempi di Huda Shaarawi sulle sponde del Nilo il velo non si limitava a riassumere lo stato di soggezione in cui le donne vivevano. Era anche il simbolo di un sistema che usava la tradizione religiosa come strumento di potere. Nessuna femminista egiziana aveva osato tanto prima di Huda. I suoi lineamenti, il suo profilo, la sua espressione, in versione più dolce, li ritrovo nella nipote: Sania Sharawi Lanfranchi, una carissima amica, che ha scritto la biografia della nonna: Casting off the Veil, The Life of Huda Shaarawi, Egypt First Feminist (publisher I. B. Tauris, december 2011, London). Da ragazza Huda si chiamava Nur al-Huda Sultan, ed era la figlia di un ricco e influente personaggio, Muhammad Sultan Pasha, chiamato “il re dell’ Alto Egitto”. A quei tempi erano in pochi a battersi per l’ emancipazione interprete di arabo, inglese, francese, italiano, non di rado in vertici di capi di Stato. Ha tradotto in inglese dei racconti del premio Nobel egiziano Naguib Mahfuz; e dall’ italiano in inglese i saggi del grande psicoanalista Mauro Mancia. Ha speso anni per ricostruire e scrivere la vita di Huda, la nonna che era anche poetessa in arabo e in francese. L’ anno delle donne. Ed era forse indispensabile, a chi si impegnava, avere alle spalle una famiglia aristocratica, potente, che desse autorità e protezione. Pur disponendo di questo privilegio Huda passò molti guai. La sua vita fu una lotta continua. Oggi Sania, la nipote, appartiene alla classe intellettuale. Vive tra Il Cairo e Milano, maè spesso in viaggio come scorso, al Cairo, si poteva incontrare Sania in piazza Tahrir, epicentro della Primavera egiziana. Il libro di Francesca Caferri è la logica continuazione del libro di Sania Sharawi. Mi è stato quindi utile leggere la vita di Huda Shaarawi poco prima di aprire Il Paradiso ai piedi delle donne. Le donne e il futuro del mondo musulmano (Mondadori), nel quale Francesca Caferri racconta la lotta di quelle che possono essere definite le discepole di Huda. E nel quale descrive al tempo stesso la situazione nel mondo musulmano, dall’ Egitto allo Yemen, dall’ Afghanistan al Marocco, dall’ Arabia Saudita al Pakistan. In questi paesi, in modi non sempre identici, i diritti femminili sono al centro dello scontro politico ed è sul loro riconoscimento o meno che si gioca buona parte della battaglia tra riformatori e conservatori. Nel mondo arabo, quel contrastato riconoscimento dipende dall’ incerta sorte della Primavera, esplosa in Tunisia un anno e mezzo fa. Francesca Caferri colloca con precisione, ad ogni tappa, la condizione femminile nei vari contesti sociali e politici. Le vicende dei numerosi personaggi, noti ed ignoti, ricostruite attraverso incontri, colloqui, documenti, al Cairo, a Sana’ a, a Karachi, a Kabul, a Rabat, a Riyadh, ricucite e raccolte in un volume diventano la storia di una rivoluzione femminile ininterrotta, condotta da generazioni a rincalzo una dell’ altra. I capelli bianchi dell’ottantenne Nawal El Saadawi risaltavano in Piazza Tahrir, nei momenti cruciali dell’ insurrezione, tra le ragazze in blue jeans o con l’hijab (il “velo islamico” che copre i capelli, ma non la faccia come il niqab o il burka). Nawal El Saadawi è una veterana. Nawal El Saadawi ha conosciuto prigione, esilio, insulti. Come prima prova, a sei anni, ha subito la mutilazione genitale, l’ asportazione del clitoride, considerata una “pratica purificatrice” del corpo femminile. Quella violenza umiliante, imposta a tante giovani egiziane, ha spinto poi Nawal El Saadawi a una rivincita, parola che forse non ama, comunque a conquistare un’ autonomia, e quindi una dignità, attraverso lo studio. E’ diventato un medico e ha continuato a battersi per migliorare la condizione delle donne. Nel vasto album delle intrepide donne musulmane, Francesca Caferri dedica il giusto spazio all’ unica araba ad avere ricevuto il premio Nobel, quello per la pace: la yemenita Tawakkol Karman, 33 anni, sposata, madre di tre figli, giornalista. Quasi un secolo dopo Huda Shaarawi, la giovane donna yemenita si è tolto il niqab, il velo che le copriva il volto, durante una conferenza sui diritti umani, e ha sfidato con lo sguardo la platea in preda allo stupore. Nel terzo millennio, lo stupore non si deve essere trasformato in indignazione con la stessa intensità del 1923 al Cairo. Per quanto ancora immersa nella tradizione, la società di Sana’ a non era quella egiziana degli anni Venti. Nell’ inverno del 2011, quando la Primavera araba è arrivata nello Yemen, il viso scoperto di Tawakkol Karman è diventato un punto di riferimento. Le donne sono state una forza determinante nelle insurrezioni che hanno travolto i vecchi rais a Tunisi, al Cairo, a Sana’ a, e che minacciano altre capitali, in particolare Damasco. Ma da quelle rivolte sono emersi movimenti islamici in preda alla tentazione, più o meno radicale, di inserire nelle costituzioni dosi variabili di principi ispirati a versioni (spesso arbitrarie) del Corano e annessi, non certo favorevoli alle donne. E’ stato un boomerang. Dall’ insurrezione di piazza Tahriro di Avenue Burghiba sono nati parlamenti dominati da partiti religiosi, moderati (se vicini o affiliati ai Fratelli musulmani) e integralisti (se di origine salafita). I laici, che lasciano le scelte religiose agli individui e non le impongono alla collettività, sono stati all’ origine delle rivolte liberali ma sono stati ridotti a minoranze senza un reale potere. Francesca Caferri cita lo studioso egiziano, Abu Zyad, che ha avuto tanti fastidi per avere trovato nel Corano elementi in favore della parità dei diritti uomodonna. Ma presta anzitutto attenzione alla “rivoluzione” delle femministe islamiche. Alcune animatrici di questa rivoluzione, in realtà una scuola di pensiero divisa in tante correnti, rifiutano il termine femministe, mentre altre rifiutano di essere definite islamiche. Per motivi opposti, entrambe ritengono inconciliabili le due espressioni. Ma in generale sostengono che Islam e parità dei diritti non sono in contraddizione. Una corretta interpretazione dei testi religiosi, non più di impronta maschile, può legittimare la coabitazione. Si tratta in realtà di far convivere Islam e democrazia. Uno dei grandi problemi posti dalle Primavere arabe che le femministe islamiche possono aiutare a risolvere.

LaRepubblica.it

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